L’uomo tigre lotta con coraggio contro i grillini, puniti non per aver rotto una alleanza con il Pd bensì per aver lasciato un governo di larga coalizione più in nome di istinti antipolitici che per calcoli razionali efficaci, ma si dimena con pugni e graffi anche contro i possibili alleati del fronte draghiano. Persino Renzi viene ricambiato con brusche maniere, che riconducono al sapore di una vendetta diluita nel tempo e ora finalmente consumata per cicatrizzare gli effetti di quando a Palazzo Chigi risuonò la campanella. Esibire lo scalpo del rottamatore, per fare assorbire i malumori per l’ingaggio di Gelmini e Brunetta, non è una buona idea e infatti sembra che sia già accantonata.
Nell’arida misurazione della distanza ideologica che si definisce tra le parti entro lo spazio politico, Renzi si colloca nella stessa area centrale di Letta. E forse si caratterizza per una leggera inclinazione più a sinistra su alcune tematiche sociali (la figura di Bellanova ostile al caporalato) e soprattutto sulla indicazione di una via di trattativa e negoziato per risolvere la crisi Ucraina che è di sicuro meno atlantista e bellicista di quella perseguita dal segretario Pd. Anche per trattare con un animale politico ribelle per natura come il narcisista Calenda (lui occupa la stessa linea mediana o centrista con una modica propensione più a sinistra rispetto a Letta, e non ci vuole molto, per via di una evocazione del socialismo liberale e dell’azionismo) l’uomo tigre esibisce gli artigli. La coalizione tra simili, in effetti, è sempre la più complessa da definire perché incentiva la ostilità personali, i calcoli contingenti, la volontà di potere di ciascuno.
Se l’uomo tigre è anche un animale con venature artistiche, e cerca i colori netti alla Van Gogh, si può dire che il sogno è già realizzato, ma in maniera paradossale: la sua coalizione vanta, infatti, colori così netti che sembra un monocolore tutto di bianco. Si votasse solo a Roma centro, gli occhi di tigre rivelerebbero una forza autentica, tale da mettere in fuga i nemici. Si va alle urne, però, anche nelle periferie, alle quali il Pd si vorrebbe rivolgere con i volti tecnocratici di Cottarelli e i proclami armati di Andreatta. Ha una qualche capacità attrattiva il progetto microcoalizionale di Letta? Qualcosa riesce di sicuro a smuovere. In altri tempi la dichiarazione di voto per il Pd scritta da Giuliano Ferrara sarebbe stata accolta con una certa enfasi. Nemmeno in anni molto lontani, il ritorno nell’arcipelago comunista di Antonio Giolitti e Furio Diaz, usciti dopo l’indimenticabile ’56, o di Massimo Salvadori, allontanatosi in anni successivi, trovò una opportuna celebrazione. Lo stesso accadde più recentemente per Saverio Vertone, anche lui sedotto dal cavaliere.
Il gesto di Ferrara, invece, non ha lasciato tracce significative, forse per via del fatto che egli decide di appoggiare il Pd proprio perché avverte che attraverso la non-leadership di Letta è diventato il solo partito costituzionale di impronta liberal-conservatrice e non ha più nulla di quelle tracce di rosso da cui si congedò quarant’anni fa. Se la dichiarazione di voto non lo interessa più di tanto, Letta però farebbe bene a prestare attenzione agli “sberleffi” che la accompagnano. Quando andò via dal Pci, Ferrara prese spunto da uno di quei lunghi e rituali dibattiti tra intellettuali comunisti che venivano ospitati su “Rinascita”. Scrisse un articolo sull’Espresso la cui sostanza era la denuncia di una sorta di nuova doppiezza comunista, dovuta alla resistenza del fronte intellettuale non disponibile ad accettare il paradigma, accolto invece nei documenti ufficiali, della democrazia-metodo, perché vittima della infatuazione per le categorie del politico di impronta schmittiana. Anche adesso che non ha una identità socialista, che non vanta intellettuali che sognano i miti di un pensiero critico radicale per trascendere il tempo presente, il Pd a leadership democristiana incontra le stesse difficoltà a ragionare nei termini della democrazia procedurale che aveva il pensiero del vecchio Pci nei primi anni Ottanta. Quando Letta denuncia il “tradimento” del Parlamento, e si appella all’Italia intera, di cui egli con il suo partito sarebbe il megafono più autentico, rivela una preoccupante mentalità populista che delegittima gli istituti di rappresentanza e spalanca la strada (come acutamente rimarcato da Rino Formica) ad altri disegni di revisione dell’equilibrio dei poteri.
Lo schema è alto-basso, élite parlamentari-popolo, una cantilena che, fra le altre cose, suona assai problematica in bocca a un partito dell’establishment che si presenta al voto con l’agenda Draghi brandita quale programma identitario e conferma del possesso di un monopolio della “ragione”. È evidente che un partito che in teoria, molto in teoria, dovrebbe occupare lo spazio politico della sinistra non può assumere come propria arma di battaglia l’agenda di un governo “senza formula politica” e nato dal compromesso siglato tra il 90% delle forze presenti in Parlamento. Un partito che si identifica con il programma di una eterogenea e ingestibile coalizione cammina sul terreno poco solido dell’assurdo. Anche la volontà di punire chi ha abbandonato Draghi (il quale però avrebbe dovuto, dopo la scissione, chiedere a Di Maio di lasciare subito la Farnesina) scivola nel campo della insostenibile leggerezza della politica moralizzatrice. Il Pd si appresta a svolgere una difficile campagna elettorale ricorrendo all’immagine del “voto per procura”, cioè votare per un candidato ombra (Draghi) che, però, non partecipa direttamente all’agone.
La ricerca di una polarizzazione quarantottesca, di qua o di là, Pd o Meloni, urta con l’assunzione contrappositiva dell’agenda Draghi, che era un programma impolitico, di gestione e amministrazione. Non si può presentare una dialettica parlamentare con l’immagine “l’Italia è stata tradita. Il Pd la difende” utilizzata da Letta. Ferrara mette in guardia dai rischi del moralismo. Non si può procedere con categorie morali per stigmatizzare, demonizzare. Se la convenzione tra i due partiti maggiori di presentarsi con il proprio simbolo nei collegi uninominali non viene siglata da Letta e Meloni, rimane una regola della potenza che contraddistingue la politica, quella di adottare tattiche di combattimento non troppo diseguali rispetto alle pratiche del nemico. La destra disattende la regola della teoria dei giochi che parla di “coalizione minima vincente”. Di norma, le combinazioni tra i partner si riducono all’essenziale per conservare dei margini di potere superiore al vincitore, non costretto a disperdere le proprie capacità di influenza in favore di una molteplicità di alleati da ricompensare con le spoglie.
Nella condotta della destra, invece, prevale una regola non contemplata, quella della “coalizione massima vincente”: tutti dentro, per vincere anche oltre le strette necessità competitive, ma con la tara evidente della eterogeneità e della preventivabile litigiosità dopo il voto. Anche Letta rigetta le consuetudini della teoria dei giochi quando disegna i contorni di una “coalizione minima perdente”. Una distanza di 16 punti percentuali con il campo nemico, stimata dai sondaggi, rischia di depotenziare la stessa risorsa del voto utile. Se non c’è la percezione tra i votanti di una contendibilità possibile, non scatta, in un elettore appartenente ad una area politico-culturale diversa, la molla per votare per il blocco meno distante che ha qualche chance di contenere un nemico visto come pericoloso. L’uomo tigre dovrebbe, prima ancora che adottare uno stile aggressivo di comunicazione (il “front-runner”, il “rompicoglioni”), costruire un campo plurale che sia percepito come in grado di combattere e difendere nei collegi la democrazia costituzionale minacciata nel senso indicato da Formica. Scacciato per una recriminazione moralistica il non-partito dei grillini, di per sé ormai in declino e però ancora in grado di resistere ed evocare un terzo polo che sottrae al Pd risorse decisive, Letta costruisce un campo aperto alle sole sfumature di bianco.
Poco senso, in un campo di fatto monocromatico, e con una inclinazione del tutto censurabile di giovani leve bolognesi di passare in pochi mesi dall’Europa alla Regione e poi al Parlamento, ha anche la decisione di assorbire le truppe di Bersani nelle liste del Pd. Se anche Sinistra italiana e Verdi si spingono, come sembra e in coerenza con la collocazione all’opposizione di Draghi, nei lidi del terzo polo di Conte, per il Pd esiste un vistoso vuoto culturale e simbolico a sinistra. La posizione più estrema sui valori è adesso quella occupata da Calenda e la prospettiva di politica estera più attenta al negoziato è quella di Renzi. Mentre il lettiano partito di chi suda (“madidi di sudore nell’afa”, non per lo sfruttamento, la precarietà) pensa ad aprire un ombrello per combattere la calura, Bersani, Cofferati, Fassina, i socialisti e tutte le personalità con una spiccata identità di sinistra non disponibili a sposare l’offerta di Conte, dovrebbero essere invitati a presentare una lista con un tocco di rosso che drammaticamente manca.
Se non ci sarà un ripensamento per allargare il campo e, con una amnistia politica, rimuovere i divieti di accesso, la “coalizione minima perdente” disegnata da Letta rischia di consegnare rapporti di forza molto negativi e quindi capaci di scoraggiare in partenza i centomila volontari da reclutare come gli arditi delle élite. Il segretario del Pd dice che la legge elettorale (imposta a suo tempo dal Pd) è la peggiore al mondo, e però la formula sua preferita (il Mattarellum) avrebbe effetti ancor più penalizzanti e regalerebbe alle destre coalizzate ben oltre il 70% dei seggi. Quando il nemico usa le pallottole, diceva Gramsci, non puoi opporti esibendo il materasso. Al fronte di destra, che minaccia con l’arma della “coalizione massima vincente”, non puoi opporti con la pistola scarica della “coalizione minima perdente”. I conti con l’antipolitica populista (la cui ideologia è ben rappresentata dal dogma dei due mandati e contro la quale per tre anni è calato il silenzio) non li fai con la scelta della sconfitta preventiva come passaggio moralizzatore nel segno di una dubbia pedagogia politica.