Il rischio di una guerra totale
Letta lancia la nuova DC con l’elmetto
Ha ragione Antonio Polito. Sono i democristiani a spingere per la guerra totale mentre la Spd (con il sostegno di Habermas) e gli ex comunisti mai avrebbero suonato i tamburi per accompagnare la soluzione armata. Senza discussioni nelle moribonde istituzioni parlamentari, e solo a colpi di tweet, Letta ha cancellato esperienze, tradizioni. Con le sue uscite, ha reinventato il profilo di un soggetto politico. Poca Europa, molta Nato e sintonia con le metafore armate di Biden. Il problema di un approccio atlantista a tratti ideologico, e solo parzialmente attenuato nelle recenti interviste, lo segnala Rino Formica quando avverte che Letta “parla a un partito che non c’è: la promessa dei sacrifici, della guerra totale, la professione di macronismo da una parte e di filoamericanismo dall’altra finiscono per spingerlo a posizioni talmente esasperate che non trovano seguito tra i suoi”.
Con le sue accelerazioni, Letta accantona le sensibilità, in verità da tempo residuali, del cattolicesimo sociale (Bindi, Prodi, Del Rio) e rimuove le sempre più flebili voci della lontana provenienza comunista (Cuperlo, Orlando). Il nuovo corso politico attinge da porzioni di culture liberali e dal cilindro magico di Veltroni che, tra una orazione funebre e gli slanci vitalistici di una intervista a Amadeus, conserva una influenza in Rai, nel Corriere e nella Repubblica, e detta al suo mondo rapito dal mito americano la melodia della “guerra metafisica”. Con l’enfasi sui valori non negoziabili, che devono portare alla vittoria del Bene, Letta non si rende conto di pervenire al paradosso di una guerra per la libertà sostenuta con il rifiuto della base teorica della democrazia, che non tollera l’esistenza di valori non mediabili. Lo spiegava Kelsen: “Conflitti di interesse e questioni di potere possono essere risolti solo per via democratica o autocratica, attraverso il compromesso o il diktat”.
Rinunciare al compromesso nei conflitti politici comporta il ritorno ad assoluti che non si prestano all’estenuante proceduralismo liberale e accettano l’idea del nemico come straniero, alterità irriducibile. In ciò sta la seduzione della forza tardoromantica dell’ideologia che ricama sui lineamenti di una guerra metafisica o per procura (a Kiev dicono che combattono per la libertà dell’Europa). Anche nella mistica delle sanzioni, celebrate come una pratica salvifica, la retorica prevale sulla logica. La massimizzazione delle sanzioni ha delle ripercussioni negative sui diritti della nuda corporeità. Lo chiariva il giurista Antonio Cassese (Diritto internazionale, Il Mulino, vol. I, p. 356): “Le sanzioni, in particolare quelle economiche, possono avere gravi effetti sul godimento dei diritti umani fondamentali dei bambini, degli anziani, dei malati, delle donne e di altri settori deboli della popolazione”.
In uno studio teorico-empirico sulla ricaduta delle misure coercitive di carattere economico adottate per colpire uno Stato aggressore, Daniel W. Drezner (The Sanctions Paradox, Cambridge, 1999) parla di esiti assai problematici delle sanzioni senza forza militare e con costi minimi per chi le adotta. Una certa dose di efficacia come conseguenza delle misure restrittive e di embargo è riscontrabile solo nei casi di sanzioni adottate contro paesi alleati. L’interruzione degli scambi economici ha effetti limitati quando interviene tra paesi in conflitto bellico o tra l’America e i cosiddetti Stati canaglia. Ricorrendo alla censura in campo economico, le nazioni non devono soltanto, come si esprime Drezner, “fare i conti con il patto faustiano di migliorare il loro benessere attraverso l’aumento del commercio e dello scambio, mentre aumentano la loro vulnerabilità alla potenziale coercizione economica”. Gli Stati, oltre al danno che producono sulla loro stessa macchina economica, devono anche considerare che le sanzioni non possono avviare le procedure di una guerra totale. Le sanzioni comminate contro uno Stato che ha compiuto degli illeciti, rileva Cassese, “non mirano a danneggiare lo Stato offensore in campo economico”.
E proprio questa idea di una induzione alla resa per crollo economico è invece la filosofia delle sanzioni che prevale in Occidente: distruggere gli apparati produttivi del nemico e, grazie alla vulnerabilità commerciale, ottenere una redistribuzione del potere interno. Ancora Cassese: “Lo scopo delle sanzioni deve essere quello di indurre lo Stato offensore a cessare il comportamento illecito; in nessun caso devono essere utilizzate come strumento per conseguire vantaggi politici o diplomatici”. La coercizione commerciale non può essere parte di una strategia tesa alla guerra totale (destrutturazione della stabilità del regime degli scambi e della produzione internazionale) o all’ottenimento di un qualche equivalente simbolico della resa del nemico. Anche la diade aggressore-aggredito come centro di imputazione delle colpe sta subendo delle torsioni che la snaturano dal punto di vista giuridico. L’autotutela è un istituto unilaterale che giustifica in talune occasioni emergenziali la necessità di difendersi da sé. Questo lecito dispositivo, che si attiva per rispondere immediatamente all’offesa ingiusta, è pur sempre orientato al ripristino dell’ordine giuridico violato (e quindi al ristabilimento della supremazia del diritto internazionale).
Certo, sono nella disponibilità del paese aggredito le più tempestive misure belliche che risultino efficaci e lesive delle prerogative militari dello Stato offensore che si è macchiato di una illegale volontà di potenza. Sebbene fondate giuridicamente, non tutte le azioni difensive sono però da annoverare tra le soluzioni lecite. Le iniziative belliche difensive, al pari del soccorso di paesi terzi che, senza diventare in modo formale dei cobelligeranti, si collocano obiettivamente in una posizione ambigua (fornitura illimitata di armi, ingente sostegno finanziario, impiego di personale ultra-specializzato nelle nuove tecnologie militari e supporto di intelligence), non godono di una estensione indefinita. La guerra di difesa, l’invio di armi o il ricorso alle sanzioni economiche devono conformarsi a dei rigorosi caratteri, che non sono quelli del viceministro britannico che intende colpire il territorio russo con armi occidentali. Tocca anche all’Italia la sorveglianza stretta sul destino delle armi inviate e sul loro uso onde evitare le illegittime rappresaglie, le misure violente contro i prigionieri o i civili. Questo perché, nota Cassese, “la parte lesa non è autorizzata a reagire violando norme internazionali poste a protezione dei diritti umani”. Su tutti gli attori ricade un obbligo stringente che sospinge sempre verso la ricerca di una soluzione pacifico-negoziale alla controversia.
Caduta la preziosa mediazione tedesca, che forse avrebbe potuto fornire a pochi giorni dall’avvio delle ostilità una opportunità concreta per definire a Kiev un commodus discessus (facile via d’uscita), qui chiaramente da intendersi come quella soluzione politica di compromesso tra Ucraina e Russia che avrebbe scongiurato il fuoco delle armi, da parte americana e di Kiev nulla è stato compiuto per integrare la dottrina della autotutela spettante alla nazione offesa. È mancato ogni sforzo per la necessaria riconduzione della attuazione coercitiva del diritto agli organismi internazionali, alle potenze regionali o mondiali che devono sedare l’antagonismo per ristabilire la pace e l’ordine in ossequio all’interesse generale al rispetto del diritto vigente. La prevalenza del diritto dell’aggredito su quello dell’aggressore non comporta la condivisione di tutte le iniziative creative all’insegna della guerra sub specie communicationis che insegue lo scenario della lotta infinita che trascende ogni mediazione. Obblighi giuridici ricadono anche sul governo ucraino che ricorre all’autotutela (così sorretta da forze esterne della Nato che la categoria parrebbe sgonfiarsi di significato) e non lesina irrigidimenti, esagerazioni, provocazioni verbali.
Lo stesso senso del limite vale per i paesi occidentali che devono considerare che il cosiddetto soccorso in difesa non è da intendersi come illimitato. Riportare in Parlamento la discussione sulle nuove armi destinate al fronte orientale è una misura di igiene democratica. Il pericolo che incombe è quello di una dottrina della guerra totale per la quale le ostilità non mirano alla cessazione della condotta illecita da parte dell’aggressore ma a cambiare l’ordine interno di uno Stato e l’equilibrio globale (economico, militare, politico). Nella dottrina anglo-americana, e nella vulgata italiana, si adotta una pericolosa visione retributiva del conflitto. Pertanto l’obiettivo delle ostilità è la punizione, anche con misure sproporzionate, dello Stato russo caricato di colpe etico-metafisiche, e non la risposta risarcitoria per determinare la cessazione dell’illecito con la predisposizione di ragionevoli compromessi (esclusione della adesione alla Nato da parte di Kiev).
Tra il diritto violato (con territori non più coperti autoritativamente dallo Stato legittimo) e la forza costituente (occupazione russa di territori con la rivendicazione di una nuova sovranità) non può ingaggiarsi una disputa infinita. Sono infatti da riconoscere i limiti alla giustificazione della guerra di difesa e la prevalenza del generale interesse alla soluzione secondo i parametri del diritto e del negoziato come forma preferibile di riparazione dell’illecito, cioè della condizione nuova che la forza russa ha generato provvisoriamente occupando porzioni territoriali. Definire una via per il dignitoso allontanamento dalla guerra è compito della politica, che non riconosce a nessuno, neppure all’aggredito, un potere totale di determinazione delle contromisure (“armi, armi, armi”).
La fortuna di Letta è che il suo oltranzismo produce sconcerto tra una parte degli elettori e forse niente di più visto il disincanto. In questi anni sono stati tentati infiniti esperimenti per creare un partito di sinistra in assenza di una eccezionale frattura sociale e tutti sono andati in malora. Ora le condizioni obiettive, la frattura, ci sarebbero e sono anche profonde, ma i soggetti in grado di raccogliere la sfida mancano. Lo stesso Bersani, che ha letto in maniera lucida la guerra, sembra rassegnato a rientrare in un partito dove ad accoglierlo troverà il picchetto d’onore scudocrociato che esibisce elmetto ed anfibi.
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