Un estretto del nuovo libro
“Lettera a mio padre”, critica di una figlia che non rinnega

Eri già fuori gioco quando nuova linfa vitale è sgorgata dalle macerie del grande inganno del bene in sé della produzione. Hai fatto finta di non vedere la fine del tempo del lavoro. Ne saresti stato annientato, forse più di tua figlia in galera a vita. Sei invecchiato tristemente, senza più vitalità, col mondo ristretto ai tuoi bisogni immediati. Dovevi sentirti solo, anche se tu per primo chiudevi agli affetti, come se non avessi più nulla da dare. Come se il destino ti avesse presentato un conto immotivato. Neanche il giorno del tuo funerale sei stato risparmiato. Da me in catene e da un manipolo di uomini in divisa intenzionati a rendere impossibile l’inviolabilità di un estremo saluto. Sei scivolato via seguendo la parabola discendente della civiltà industriale.
Mai sistema tanto decisivo quanto di vita breve. Ma c’eri ancora quando, seduto sulla tua seggiola, non potevi non accorgerti che una nuova classe di lavoratori stava affossando profitti e disciplina. Quelli che hanno cambiato la mia vita e oscurato la tua parlavano i dialetti dei migranti dalle nostre terre impoverite, sono stati cacciati dai bar delle città industriali e hanno dovuto dormire nelle stazioni dei treni. Ma tanto geniali e coraggiosi da prefigurare la giustizia in terra. Sono stati sconfitti dall’abbraccio mortale della politica dei padroni e dei loro servi sciocchi. Con loro siamo stati sconfitti tutti. Le macchine li hanno sostituiti ma le macchine non comprano e non consumano e i costi delle crisi si pareggiano azzerando i benefici conquistati, con le guerre e lo sfruttamento dei territori. E quando la manodopera locale non è più stata al gioco se n’è importata da ancora più lontano. Oppure sono state portate via le fabbriche. Dopo la sconfitta di quella rivoluzione a cui tu non hai mai creduto.
Senza più nulla a impedirlo l’odio dei padroni si è scatenato sui nuovi migranti che parlano dialetti di terre ancora più a sud, messi alla catena subito dopo averli declassati a schiavi, per insufficiente grado di civiltà. E le macchine sono state portate altrove, dove ancora più umiliata è la genialità del fare, dove la forza del lavoro è pagata ancora meno e dove si continua a rapinare l’energia che ci è necessaria a far funzionare la nostra opulenta democrazia. Guerre, miseria e rapine, mai tanto devastanti. Il nuovo ordine mondiale può vivere solo sull’esclusione del conflitto degli sfruttati, braccia intercambiabili a diverse gradazione. Ma da un sud ancora più vasto possono arrivare la maestria delle grandi idee e il rimedio di un attrezzo in dotazione di quell’immensa officina sotterranea che sorregge la moderna tecnologia a forza di braccia e mezzi in disuso.
Magnifici strumenti per l’opera di sabotaggio dell’attuale meccanismo riproduttivo di morte. È già successo, secondo prassi e tradizioni. E succederà ancora. Basta aprire un po’ di più lo sguardo. Delle tante promesse di viaggi che avremmo fatto insieme mi rimangono le tue ricche anticipazioni e, nell’attesa, le gite di pochi chilometri. Adesso, per non lasciare nulla in sospeso, posso portarti io a conoscere un mondo un po’ più grande. Anche se le mie storie non sono come le tue mappe di via di fuga individuali, buone per tirare il fiato nella durezza delle scarse possibilità di scelta. Sai che non provo grandi entusiasmi se non c’è un “noi” di mezzo.
E mi piace pensare che forse le nuove forme di resistenza sarebbero piaciute anche a te e che, fuori dal tempo, potremmo trovare uno sguardo comune. Ci guadagneremmo entrambi. Io mi sentirei ancora la tua figlia preferita e tu potresti riposare in pace. Non ho un concezione universale da proporti, quella è tramontata quando è stato oltrepassato il limite di senso che manteneva alla storia il tratto umano.
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