In un discorso pronunciato durante il pranzo ufficiale offerto a Berlino dal presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier, il capo dello Stato Sergio Mattarella ha sottolineato che “l’Unione europea è chiamata a dotarsi di tutti gli strumenti necessari per contrapporsi con efficacia ai danni e alle distorsioni causate dalle autocrazie illiberali, e dalle antistoriche politiche di aggressione contro altri Stati”.

La valenza globale dell’appello

Il riferimento, visto il contesto, è chiaramente all’invasione russa in Ucraina. Ma l’appello ha una sua valenza globale. Viene quindi naturale declinare le parole del presidente della Repubblica anche in chiave africana, di cui ora si parla molto ma in cui l’atteggiamento europeo e italiano sembra piuttosto disinvolto con gli autocrati. Nel novero delle “autocrazie illiberali” rientrano infatti a buon diritto numerosi paesi partner della Ue. Come ad esempio la Tunisia, dove il pugno di ferro del presidente Saïed si rivolge ormai da tempo contro tutte le opposizioni e gli arresti aumentano esponenzialmente in prospettiva delle elezioni del prossimo 6 ottobre.

L’atteggiamento italiano

Eppure Tunisi, per Roma e Bruxelles, riveste il ruolo di paese fondamentale nel quadro del controllo dei flussi migratori irregolari in partenza dalle coste africane. Saïed è infatti al centro di una serie di accordi molto generosi. La Tunisia è inoltre uno dei nove Stati africani prioritari del Piano Mattei nonché del Processo di Roma, lanciato dal governo italiano nel luglio dello scorso anno per combattere il traffico di esseri umani, gli sbarchi illegali e le reti di trafficanti. E non si può definire democratica e liberale la Libia, paese di nostro primo riferimento anche ai tempi di Gheddafi, dove da anni si parla di elezioni senza farle e dove i due uomini forti in Tripolitania e in Cirenaica (Dabaibeh e Haftar) non sono mai stati eletti dal popolo.

Se poi scendiamo lungo il Continente, e dal Sahara ci spostiamo alla fascia del Sahel, ecco che ci imbattiamo in una mezza dozzina di Stati in cui governano Giunte militari golpiste (fra gli altri Mali, Burkina Faso e Niger), con cui però l’atteggiamento italiano ed europeo è collaborativo. È particolarmente pragmatico in Niger dove – nonostante lo scorso anno un manipolo di militari “putschisti” abbia esautorato il presidente legittimo Bazoum e adesso minacci nei suoi confronti la pena di morte – il nostro paese mantiene oltre 300 militari per una cooperazione orientata al controllo dei flussi migratori irregolari, in partenza o in transito da quel paese. Estremamente pragmatici sono sia la Ue che l’Italia con l’Etiopia che, da quando il suo leader Abiy Ahmed è stato insignito del premio Nobel per la pace nel 2019, sembra votata a una politica fortemente destabilizzante e aggressiva sia al suo interno sia in ambito regionale. Anche l’Etiopia, peraltro, figura tra i paesi prioritari del Piano Mattei.

Le relazioni pericolose

Che dire poi della passione tutta nostrana per l’Eritrea, paese isolato e dispotico, nelle mani di un presidente che – in 30 anni di potere – non si è mai sottoposto al giudizio elettorale e dove i cittadini maschi sono costretti a un servizio militare permanente finché non diventano vecchi? Eppure l’Italia parla di riaprire i rapporti con Asmara e il suo leader, dopo che le truppe eritree si sono macchiate dei peggiori crimini durante la guerra in Tigray dal 2020 al 2022. La rassegna delle relazioni pericolose potrebbe proseguire ancora per molto.

Il sospetto è che in Africa (per l’Europa, per l’Italia e per l’Occidente) i princìpi e i valori enunciati da Mattarella a Berlino abbiano una valenza minore, o forse non ne abbiano alcuna. Ma se continueremo a mostrare una bassa sensibilità per il diritto internazionale, per i valori costituzionali, per i princìpi di buon governo e per i diritti umani nel Continente africano, rischiamo di annullare ciò che di buono abbiamo lanciato verso l’Africa con il Piano Mattei. Poiché se è vero che serve una crescita economica e infrastrutturale in quei territori, è altrettanto incontestabile che occorra anche una crescita di partecipazione civile e di coscienza politica per i giovani africani. I quali stanno capendo quotidianamente sulle loro spalle che dalla Russia, dai dispotismi locali e dalle Giunte militari è difficile attendersi granché per il loro futuro.