L'editoriale
L’Europa mette in campo 100/200 miliardi, il governo sa come spenderli?
Lo ripeto, prima di fare i difficili con l’Europa, facciamoci un bell’esame di coscienza. Pian piano si muove. Il piano di intervento comunitario basato sui quattro pilastri finanziari (Mes, Bei, Sure e Recovery) sta lentamente prendendo forma, con la Commissione Europea che sta, con una qualche fatica, dettagliando le caratteristiche economiche e finanziarie della strategia di sostegno all’economia europea colpita dalla crisi conseguente al coronavirus. Per quanto riguarda il Mes, i paesi dell’Eurozona si sono accordati per attivare risorse pari al 2,0% del Pil dell’area euro, per un ammontare complessivo di oltre 200 miliardi di euro, con una condizionalità esclusivamente basata sull’indirizzare le risorse per spese sanitarie dirette e indirette. I termini del prestito basato su linee di credito ad hoc appaiono molto favorevoli, considerando che il tasso d’interesse marginale applicato sul prestito è pari a solo lo 0,1%, al quale va aggiunta una up-front fee (una tantum), e una commissione di gestione annuale di ammontare limitato. Condizioni che, per l’Italia, considerando la durata decennale del prestito, sono molto più vantaggiose di quelle di un ricorso al mercato dei titoli di Stato (da 15 a 20 volte).
Sul secondo pilastro, quello della Bei, che dovrebbe mettere in gioco risorse complessive per oltre 200 miliardi di euro, attraverso trasferimenti diretti e garanzie alle imprese, mancano ancora i dettagli, che però dovrebbero essere definiti già entro la fine di questo mese. Sulla Bei ci sono ancora dei nodi da sciogliere, soprattutto sulla natura finanziaria degli strumenti. Da capire ancora, infatti, se i 200 miliardi dichiarati dalle istituzioni europee sono dei veri e propri finanziamenti a fondo perduto, prestiti oppure se è la misura dell’effetto leva che si crea dallo stanziamento effettivo, di ammontare di molto inferiore (solitamente, l’effetto leva va da 10 a 15 volte le risorse stanziate).
Per quanto riguarda il fondo per la disoccupazione, meglio noto come Sure, il Consiglio Europeo ha istituito uno strumento temporaneo per aiutare i lavoratori a mantenere il loro posto di lavoro durante la crisi, che fornirà agli Stati membri fino a 100 miliardi di euro erogati sotto forma di prestiti a condizioni favorevoli.
Lo strumento consente agli Stati membri di chiedere il sostegno finanziario dell’Ue per contribuire al finanziamento degli aumenti repentini e severi della spesa pubblica nazionale, a partire dal 1º febbraio 2020, connessi a regimi di riduzione dell’orario lavorativo e misure analoghe, anche per i lavoratori autonomi, o a determinate misure di carattere sanitario, in particolare sul posto di lavoro, in risposta alla crisi. Per fornire agli Stati membri richiedenti assistenza finanziaria a condizioni favorevoli, la Commissione raccoglierà fondi sui mercati internazionali dei capitali per conto dell’Ue. I prestiti concessi dal Sure saranno sostenuti dal bilancio dell’Ue e da garanzie fornite dagli Stati membri in funzione della loro quota nel Reddito Nazionale Lordo dell’Unione. L’importo totale delle garanzie sarà di 25 miliardi di euro. Il Sure diventerà disponibile soltanto dopo che tutti gli Stati membri avranno fornito le loro garanzie e sarà in seguito operativo fino al 31 dicembre 2022. Questa parte della proposta è tutta da capire e da chiarire.
Infine, lo strumento più atteso è quello del Recovery Fund, il fondo per la ricostruzione europea che, dovrebbe avere, a regime, una dotazione complessiva di circa 1.000 miliardi di euro, pari al doppio di quella ipotizzata da Germania e Francia nella loro recentissima proposta congiunta. Le risorse del fondo dovrebbero essere erogate senza condizionalità alcuna, e non subordinate al paradigma “soldi in cambio di riforme strutturali”, che sempre l’accordo di Germania e Francia suggerisce. Da leggere positivamente, invece, che i fondi provengano dall’indebitamento europeo sui mercati finanziari. Fin qui tutto bene, si fa per dire, anche se da ultimo, c’è da considerare che proprio il salvifico “Temporary Framework” recentemente introdotto dalla Ue, sulla concessione di aiuti di stato alle imprese colpite dalla crisi, sta creando enormi disparità (divergenze) tra i vari paesi europei, derogando al principio del “level playing field” (giocare tutti nello stesso campo), il quale stabilisce che la concessione degli aiuti non deve alterare gli equilibri competitivi tra le varie economie europee, come purtroppo sta accadendo.
Stando ai dati forniti dalla Commissione, infatti, la Germania ha fornito aiuti alle proprie imprese per il 51% del totale di aiuti richiesti da tutti i paesi europei e per un ammontare finanziario pari al Pil di ben 16 stati membri messi assieme, sfruttando la sua potenza finanziaria garantita da un basso indebitamento e da finanze pubbliche mantenute in ordine negli ultimi anni. Certamente un merito che va riconosciuto a Berlino ma che non può in alcun modo essere usato in questo momento di crisi per creare una egemonia imprenditoriale ed economica nel Vecchio Continente. Sarebbe la fine dell’Unione, con la desertificazione del tessuto economico produttivo dell’Europa. Desertificazione che si tradurrebbe in un vero e proprio effetto “boomerang” per la Germania stessa.
L’unione Europea e lo stesso euro sono stati costruiti sulla base della cultura della convergenza: il rischio è che un evento catastrofico di natura simmetrica (la pandemia da coronavirus) si trasformi in un campo asimmetrico di macerie, proprio in ragione del “Temporary Framework” e della diversa potenza di intervento dei paesi forti. Ecco, questa è la chiave del “pacchetto europeo” (Sure, Bei, Mes, Recovery): o viene subito implementato e nella scala giusta (quantità e qualità, grant e loans), oppure è finita per l’Europa e per l’euro. È bene esserne tutti consapevoli. Se le condizionalità richieste dall’Europa fossero riforme da implementare nei singoli Stati, come un codice degli appalti europeo, una burocrazia e una giustizia europee, un mercato del lavoro europeo, e tanto altro, ci sarebbe solo da rallegrarsene ed esserne felici. C’è, infatti, condizionalità e condizionalità.
Un conto è il sangue, sudore e lacrime e i “compiti a casa” di merkeliana memoria, mai dimenticati; altra cosa è la convergenza sulle buone regole, sui buoni investimenti, sulle buone infrastrutture, sulle buone reti, sulla buona ricerca, sulla buona scuola e università. Quindi, per favore, basta slogan e luoghi comuni, e guardiamoci bene nelle palle degli occhi prima di sputare sull’Europa e sui suoi soldi. Un solo ultimo e cattivo pensiero. Se arrivassero davvero all’Italia i 100 o i 200 miliardi tra loans e grants, il Governo saprebbe come spenderli? Lo ripeto, prima di fare i difficili con l’Europa, facciamoci un bell’esame di coscienza.
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