Ho passato la scorsa notte ad ascoltare le conferenze stampa dei dirigenti del Fbi incaricati dell’inchiesta sull’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio scorso e un messaggio – in fondo rassicurante – emergeva: «Vi troveremo tutti, ad uno ad uno, potete nascondervi nei paesi e nelle foreste più sperdute, credervi al sicuro in qualche baita sui laghi o nel mezzo di un deserto, ma verremo a bussare alla vostra porta e non sarete contenti. Per adesso vi incrimineremo per il reato più facile: aver varcato i limiti proibiti, ma il resto seguirà e nessuno di voi la farà franca. Noi lavoriamo ventiquattr’ore al giorno e ci vorranno forse due mesi per riconoscervi tutti e scovarvi, ma vi consigliamo di fare come già hanno fatto molti: consegnatevi, e vi eviterete guai in più. Ma potete stare sicuri: nessuno la farà franca».

Udendo queste parole del Fbi indirizzate a coloro che hanno assaltato e devastato il tempio della democrazia, il Parlamento sulla cima del Capitol Hill, pensavamo alle nostre forze di polizia e magistrati che hanno lasciato minacciare il nostro Parlamento di essere aperto come una scatola di tonno e alle minacce continue e personali dei forconi e dei vari assalitori e girotondini della nouvelle vague antidemocratica in Italia. Ma torniamo a D.C. come gli americani chiamano Washington. La grinta feroce del Fbi ci fa sperare che tutta la verità venga fuori sull’accaduto, dal momento che i federali hanno dichiarato di aver individuato “diversi gruppi organizzati” che con largo anticipo e alcuna connessione con le parole pronunciate dal Presidente nel suo disgraziato discorso per cui oggi è appeso per i pollici, erano già partiti dai quattro punti cardinali degli States per andare nella capitale con armamentari ed esplosivi (fra cui due tubi di gelatina esplosiva con timer e innesco che non sono però detonati) e con i loro piani. Ormai nessuno nega che in quell’assalto oltraggioso e feroce (un poliziotto morto per le percosse e una manifestante inerme abbattuta da un poliziotto con un colpo al cuore) ci fossero diverse mani e diverse organizzazioni e che non si trattasse soltanto dei soliti suprematisti bianchi.

L’inchiesta porterà a galla molto, ne siamo sicuri e la notizia è confortante perché fin dalla scorsa estate tutti i giornali e media avevano registrato una moltiplicazione di associazioni armate di destra e di sinistra, tutte pronte a colpi di mano. Con la differenza che quelle di sinistra godevano allora di una benevolente copertura giustificazionista perché agivano all’ombra delle emozioni collettive determinate dall’uccisione di George Floyd, il giovane nero soffocato da un poliziotto con un ginocchio sul collo. Adesso l’Fbi promette che «nessuno la farà franca, tutti dovranno rispondere di qualsiasi azione contro la legge e l’ordine». Tuttavia, mentre i federali fanno il loro mestiere con la stessa grinta con cui affrontarono i gangster di Al Capone, la politica americana non aspetta i risultati delle inchieste e procede all’esecuzione preventiva del colpevole presunto e non provato, ovvero procede alla giustizia sommaria parlamentare della messa in stato d’accusa con effetti letali sull’onore, la carriera e il futuro politico del giustiziando, secondo una antica e infernale tradizione.

Gli Stati Uniti hanno il rogo nel Dna. O il linciaggio, l’esecuzione esemplare: oltre alla forca, era in gran voga coprire il condannato di pece e coprire la pece di piume d’oca affinché il disgraziato, condannato a soffocare per mancanza d’ossigeno scorrazzasse come un pollo impazzito prima di cadere morto. Il rogo moderno degli Stati Uniti, terminato l’effetto fulminante della sedia elettrica, è diventato l’impeachment. L’atto di messa in stato d’accusa del re (il Presidente americano è di fatto un re costituzionale eletto per quattro anni) affinché possa essere avviato al patibolo tra ali di folla osannante e minacciosa. Trump è stato messo in stato di impeachment dalla House, la camera bassa, per iniziativa stregonesca della sua nemica Maga Magò personale Nancy Pelosi, donna tremenda e calcolatrice, con un unico scopo confesso: uccidere la bestia già ferita. Infatti, poiché l’impeachment non potrà avere alcun seguito poiché anche se fosse votato e confermato dal Senato (cosa dubbia) non potrà essere usato contro uno che non è più presidente, l’esecuzione postuma serve a impedire che il popolo degli Stati Uniti d’America, nella sua ricorrente follia, possa nel 2024 rieleggere il cittadino Donald Trump alla Casa Bianca. Un po’ quel che fu fatto a Berlusconi cacciato dal Senato con uso retroattivo della legge Fornero con divieto a ricandidarsi (hai visto mai rivincesse di nuovo) anche in futuro. Aggiungiamo che anche in Italia tira una simile aria loffia: io personalmente detesto Salvini e non vorrei mai che diventasse primo ministro, e neanche secondo ministro, ma sono inorridito dal candore con cui i politici di un governo delegittimato incapace e portatore di morte, dichiarino senza vergogna di dover comunque governare perché dio ce ne guardi i loro compatrioti votassero, eleggerebbero il capo della Lega.

Noi, l’abbiamo detto e scritto, disapproviamo fortemente, anzi totalmente, il comportamento sconsiderato e i messaggi che Trump ha inviato alle folle che si radunavano il 6 gennaio su Capitol Hill per contestare – l’avvenuta elezione di John Biden in una dedicata seduta del Senato, presieduta come vuole la Costituzione dall’attuale vicepresidente Pence. Che cosa sia successo in quelle ore lo abbiamo visto solo in parte nei telegiornali, ma sicuramente non conosciamo ancora che una piccola parte. Certamente, manca il meglio: l’organizzazione, i gruppi, le attrezzature, i piani. l’intelligence. Tutto da stabilire perché il rapporto di causa effetto – parola di Trump, sedizione delle folle – è totalmente da dimostrare, come dichiara l’Fbi, ma intanto il boia ha già stretto il cappio al collo dell’imputato e ha la mano sulla leva che apre la botola.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.