Il punto debole della provocazione con cui Giuseppe Benedetto chiede per il 2025 una moratoria sulla nascita di nuovi partiti liberaldemocratici è che la soluzione proposta è davvero la più facile tra le tante. Persino troppo facile: chiamarsi fuori, nell’empireo di 4 buone idee da diffondere, ma senza uno strumento reale per sostenerle. Molto più complicato e forse impossibile, ma più nobile, darsi da fare per realizzare strumento e idee. Snobistico ed elitario (chi ti ascolta se fai pedagogia nel deserto?), il suggerimento di Benedetto non risolve una questione seria che comunque esiste – la mancanza di un ruolo liberale nel panorama politico nazionale – buttando in caciara il dato identitario più forte del disperso universo liberale, che fa dell’individualismo e del separatismo (se possibile litigioso) un motivo di orgoglio.
Il tentativo unitario
Se si incoraggia questa tendenza antropologica, sfottendo l’idea stessa di un tentativo unitario (PLI: Progetto Liberale Inconsistente) è inevitabile che lasci ad altri, non liberali, la gestione di un’idea che sta disperatamente tentando di radicarsi. Il concetto di moratoria è l’elogio della sospensione della responsabilità e del vuoto, ma notoriamente il vuoto chiama il pieno, e il bello è che il miele liberale ha ancora capacità di attrarre, chiamando a raccolta i cercatori di uno spazio credibile, ora che destra-destra e sinistra-sinistra allargano i confini dei rispettivi estremismi. Ma allora c’è un secondo pericolo nascosto dietro quel troppo facile chiamarsi fuori. È il pericolo che dovrebbe essere ben noto in questi tempi di disinvoltura ideologica, e cioè che ci vuole un attimo per definirsi liberali, rivendicare lo spazio lasciato vuoto e occuparlo: bastano soldi e un leader acchiappa like. Ma poi proprio lo scomodo programma in 4 punti (garantismo, concorrenza, pragmatismo ambientale, merito) si trasformerebbe in azzardo pretestuoso, e soprattutto pericoloso, se messo nelle mani sbagliate. Si dice concorrenza e ci si autoproclama liberali, ma poi si fa una legge come quella dell’attuale governo che la nega.
Ruffini, l’ultimo arrivato
Insomma, chiamarsi fuori non è solo un atto di rinuncia (chiamalo, se vuoi, moratoria) ma è dare un vantaggio forse irrecuperabile a chi non vede l’ora di fregiarsi di quella etichetta per farne un uso inappropriato. C’è la coda alla porta della casa liberale, magari infilando l’aggettivo accanto all’ambiguo concetto geografico di “centro”. C’è chi lo sposta a destra, chi a sinistra, ma il censimento degli aspiranti all’occupazione del luogo di un liberalismo immaginario è già ampio e ogni giorno si arricchisce. L’ultimo arrivato è Ernesto Maria Ruffini (Ruffini chi?), già incoronato come possibile federatore. Ma partendo da destra c’è innanzitutto Forza Italia, la prima fin qui a godere senza meriti dei vantaggi dei litigi del fu Terzo Polo. C’è poi Maurizio Lupi che propone un bel mix mai sperimentato tra C.L. e liberalismo. E spingendosi più in là c’è Beppe Sala, che lascia l’accattivante marchio verde, ora che i grattacieli milanesi crescono sui garage, e ambirebbe essere incoronato centrista che guarda a sinistra. Sarebbe fattibile anche un partito liberista alla Milei, acclamato ad Atreju, ma il presidente argentino odia il centro quanto “i politici”, e Paolo Mieli nota che in questo la pensa come la sinistra che non vuole valorizzare il centro e quindi finirà per essere fagocitato dalla destra. Tutto un affollarsi di aspiranti, perché lo spazio c’è e sarebbe anche ampio se non fosse per una legge elettorale che ha costruito il bipopulismo sulle fondamenta di un falso bipolarismo. Peggio ancora sarebbe che la moratoria nascondesse solo la voglia di flirtare con uno a caso di questi gruppi, oscillando tra un flirt con Forza Italia e un ritorno nostalgico a Renzi e Calenda. Se così fosse basterebbe dirlo, spiegando innanzitutto a Luigi Marattin e ad Andrea Marcucci che sono loro il bersaglio della moratoria.
Dire basta sembra ingeneroso
È vero che i liberali sono dispersi in mille rivoli, ma lo sforzo è proprio quello di mettere insieme un arcipelago di isolette autoreferenziali. Impresa titanica, lo sappiamo, vasto programma quasi utopico, e i liberali del resto faticano ovunque in Europa. Ma sopravvivono. Anche se piccoli, non fanno scelte di pura testimonianza: fanno politica. Benedetto – che fu il fondatore autoreferenziale dell’impresa di costruire una terza gamba liberale nel Terzo Polo – è disilluso e preferisce i massimi sistemi delle scelte di valore, proprio in un momento in cui l’analfabetismo funzionale le disprezza e in cui il “merito” è solo un modo di cambiar nome a un ministero. Dire basta a nuovi partiti liberali proprio mentre ne nasce uno che li vuole mettere insieme – e recentemente a Milano ne ha già raggruppati 5 – sembra, insomma, ingeneroso. Nel 2026 potrebbe essere troppo tardi.