Parla il diversity manager di Tim
“Liberare il talento dai pregiudizi paga: il bene delle persone è il bene delle aziende”, parla Andrea Rubera
La diversità di genere è una strategia aziendale intelligente che ha un riscontro economico misurabile: aumenta l’efficienza organizzativa e i profitti. La sua promozione – tra dipendenti, dirigenti e all’interno dei consigli di amministrazione – costituisce un volano importante per la crescita economica dell’azienda che la mette in atto.
Anche di questo parla “The Future of Diversity”: la recente pubblicazione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Ilo) e dell’École nationale d’administration publique (Enap) del Québec. Una raccolta di contributi scritti da accademici e professionisti di diversi settori che analizzano buone pratiche e strumenti, messi in campo per la realizzazione di un mercato del lavoro più inclusivo per tutti.
Il capitolo del Rapporto “Unpacking the business case for gender diversity” prende in esame la sostenibilità economica della diversità di genere attraverso l’analisi dei dati emersi dall’indagine globale su “Donne nel mondo degli affari e del management”. La ricerca – condotta in 15 lingue, nell’arco di tre mesi – ha incluso quasi 13mile imprese intervistate in 70 paesi diversi. Gli intervistati – circa il 60% uomini e il 40% donne – occupavano posizioni decisionali, con il 53,4%, responsabile di dipartimenti o unità aziendali e il 46,4% che gestiva un team di persone. Delle imprese intervistate che hanno monitorato l’impatto quantitativo delle iniziative sulla diversità di genere sulla promozione delle donne nel management, quasi il 74% ha riportato un aumento dei profitti compreso tra il 5 e il 20%. Queste aziende hanno oltre il 60% in più di probabilità di ottenere profitti migliori e hanno quasi il 60% di probabilità in più di godere di una maggiore reputazione; maggiore facilità nell’attirare e trattenere i talenti; e maggiori creatività, innovazione e apertura a nuove idee.
Ma le forme e gli elementi che compongono la diversità sono molteplici: accanto alla “questione femminile”, troviamo le esperienze delle persone Lgbtq+, quelle dei migranti, la stessa diversità culturale e la discriminazione per età. Esiste, infine, una “diversità nella diversità”: non tutti quelli che ricevono la stessa etichetta hanno gli stessi bisogni. Ed ecco lo sforzo a cui tutti – operatori dell’informazione, imprenditori, classe politica, organizzazioni sociali – siamo chiamati: pensare al termine “diversity” come a un termine “ombrello” abbastanza ampio da avvicinarsi il più possibile alla complessità del reale. Andrea Rubera è il Diversity & Inclusion Manager di Tim, tra le prime aziende italiane ad aver previsto, nel 2009, un programma con un piano articolato di iniziative che riguarda tutti gli ambiti di inclusione (genere, età, disabilità, orientamento sessuale, etnia e religione). «Posso affermare con un pizzico di orgoglio», dice Rubera a Il Riformista, «che in questi anni siamo divenuti un benchmark di riferimento a livello mondiale: da tempo, infatti, Tim è nelle posizioni di testa dei principali indici globali che misurano la capacità delle aziende di essere inclusive». Come? «Non esiste una ricetta unica: ogni organizzazione deve poter individuare il suo ‘vestito su misura’ partendo dal proprio contesto culturale, dalle proprie persone».
E prosegue: «La pubblicazione di “The Future of Diversity”, per chiunque si occupi di inclusione e valorizzazione delle diversità, rappresenta una occasione perfetta per fare il punto su dove siamo arrivati in questi 30 anni di lavoro». E si scopre che la geografia mondiale e organizzativa è ancora molto variegata. L’Italia, in particolare, ha molta strada ancora da fare: «Sia in termini socio-demografici – ad esempio, la presenza sistematica e integrata di rappresentanti di etnie e religioni diverse è ancora tutta da avviare – sia in termini culturali: il modello patriarcale da noi è ancora pervasivo rispetto ai paesi nordeuropei, dove i ruoli famigliari e sociali non sono culturalmente assegnati per genere», spiega Rubera. Ma storici, antropologi ce lo dicono oramai da tempo: «Le evoluzioni del genere umano sono per lo più avvenute in contesti dove persone di culture diverse si sono incontrate/scontrate per cause di forza maggiore (conquiste, domini, guerre) o per cause naturali (migrazioni dovute a carestie, clima)»: e la scintilla del cambiamento ha avuto origine proprio da questo incontro!
È vero, poi, che noi esseri umani siamo inclini a “specchiarci” nei nostri simili: «Si tratta di una constatazione psicologico/neurologica. L’essere umano – racconta il manager di Tim – funziona per bias che sono meccanismi di semplificazione attivati dal nostro cervello per processare i milioni di informazioni a cui siamo esposti in ogni momento». L’affinity bias è proprio quel meccanismo che ci porta a «preferire persone simili a noi e che, nella quotidianità, può farci commettere errori valutativi, se li mettiamo in campo nel momento di operare delle scelte, come decidere chi assumere o chi promuovere». Per questo, «c’è bisogno di figure professionali come quella del Diversity & Inclusion Manager nelle organizzazioni, per rimuovere le barriere di ogni tipo, analizzando ogni contesto e ogni processo. E per favorire la nascita di team variegati al proprio interno, innescando così processi creativi e evolutivi». Fino a quando? «Fino al traguardo della ‘total inclusion’, quando non ci sarà più bisogno dei Diversity Manager».
C’è da tener conto, però, che la diversità non è mai un obiettivo “ma un punto di partenza” perché “ogni contesto è ‘diverso’ per definizione”. E “il vero obiettivo da raggiungere”, conclude Andrea Rubera «è l’inclusione: rendere ogni persona in grado di esprimere il massimo del proprio talento, delle proprie potenzialità, senza occuparsi di tenere a bada barriere fisiche, culturali, normative. Senza preoccuparsi del giudizio degli altri e dell’organizzazione nel suo complesso».
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