Uno scrosciante applauso bipartisan nell’Aula di Palazzo Madama; poi il plauso al governo, ai servizi segreti, alla diplomazia per la liberazione di Cecilia Sala da parte di tutti i leader dell’opposizione. A partire da Elly Schlein e dai suoi compagni Giuseppe Conte e Nicola Fratoianni, che però prima dell’8 gennaio non si erano mai sbottonati, forse in attesa di un capitombolo di Giorgia Meloni. Ma, si sa, “gli italiani sono sempre pronti a correre in soccorso dei vincitori”, come recita un’abusata e famosissima battuta attribuita a Ennio Flaiano (che però non è sua).

Caso Sala, lo scambio mal digerito

Nel giorno immediatamente successivo al rilascio della giornalista, però, il carro su cui erano saliti si è subito fermato. È così iniziato un altro storytelling, che questa volta ha avuto come protagonista la liberazione di Mohammad Abedini. Uno scambio mal digerito, nonostante fosse già scritto dopo il viaggio lampo della premier in Florida. E allora via alle polemiche e polemicuzze sulle fin qui misteriose contropartite promesse a Donald Trump. Tanto per sminuire, in fondo, il successo politico di un’operazione che si presentava complicatissima proprio perché c’erano di mezzo gli Stati Uniti. D’altronde il retroscenismo fa parte della cultura profonda e viscerale degli italiani. Lo aveva capito Francesco De Sanctis già nel 1869: “In Italia ogni atto della vita pubblica ha due lati, uno apparente e un altro nascosto: vi è la scena e la controscena, perché le tradizioni della tirannide secolare ci hanno abituati alla cospirazione. Onde non sappiamo pensare a qualche cosa che dovrebbe per sé stessa prodursi alla luce del giorno senza apparecchiarla colla cospirazione” (“Sopra Niccolò Machiavelli“).

I precedenti

C’è poi chi ha riproposto un vecchio interrogativo, ovvero se sia stato eticamente e politicamente accettabile calare le brache di fronte a una dittatura criminale. In molti hanno osservato che lo scambio creerebbe un precedente pericoloso, mai verificatosi nella storia repubblicana. Ma non è così. Basta pensare al rapporto di collaborazione dei nostri governi – che si è sviluppato tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Ottanta – non solo con l’Olp, ma anche con Stati sponsor del terrorismo internazionale come Libia, Iraq e Siria. Una scelta che affondava le sue radici nel tradizionale filoarabismo di una parte importante della politica nazionale del Dopoguerra.

Le trattative con i palestinesi

Il punto di svolta fu il primo attentato all’aeroporto di Fiumicino, messo a segno il 17 dicembre 1973 da un commando di terroristi palestinesi e costato la vita a 29 persone. Nel corso delle indagini condotte dalla nostra Intelligence, divenne subito chiaro al dicastero guidato da Mariano Rumor – con Aldo Moro ministro degli Esteri – la pesante implicazione di Gheddafi. Ciononostante, il colonnello continuò a godere di un’ampia apertura di credito pur di evitare nuovi attentati sul nostro territorio, pur di ottenere gli approvvigionamenti necessari in un’epoca di shock petrolifero globale e, forse, pur di “salvare” la Fiat.

Da Fiumicino in poi i terroristi islamici, quindi, operarono in Italia in un regime di sostanziale libertà, non priva di coperture istituzionali nonostante nello stesso periodo si continuasse a colpire obiettivi anche nel territorio nazionale. Come accadde il 9 ottobre 1982 con l’attentato alla sinagoga di Roma, che lasciò a terra una trentina di persone e in cui venne ucciso il piccolo Stefano Gaj Taché. In un caso, ricostruito dalla storica Valentine Lomellini nel libro “Il lodo Moro. Terrorismo e ragion di Stato 1969-1986” (Laterza, 2022), per fornire un’exit strategy ai terroristi furono coinvolti addirittura esponenti della magistratura e il presidente della Repubblica Leone, che nel 1976 graziò tre libici processati per possesso di documenti falsi e di armi, probabilmente coinvolti in un’azione diretta a eliminare un dissidente in transito in Italia.

Allora l’espressione “lodo Moro”, per designare la linea di politica estera frutto di questo accordo, ancora non esisteva. La citò Francesco Cossiga nel 2008 sulle pagine del Corriere della Sera (rinnegandola). Tuttavia, una volta, il leader democristiano la richiamò con una delle sue acrobatiche formule: “Equidistanza con comprensione verso gli arabi”. E non mancò di alludere al singolare comportamento del suo partito, che aveva sempre trattato con i terroristi palestinesi e che ora si rifiutava di trattare con i terroristi rossi. Sic transit gloria mundi.