Il processo a Saviano e l'attacco a "Ristretti orizzonti"
Libertà di parola per Roberto Saviano e per i detenuti al 41bis
È un pendolo curioso quello che oscilla tra la rivendicazione di un famoso e prestigioso scrittore anticamorra di poter esprimere liberamente il proprio pensiero e la richiesta, proveniente da un’associazione privata e diretta alla polizia antimafia, di accendere un faro sulla gestione di una pubblicazione curata da detenuti. Roberto Saviano viaggia verso un processo penale con l’accusa di aver pesantemente insultato una donna in politica; Ristretti Orizzonti viene tacciata di essere una sorta di enclave mediatica finita in mano a carcerati di alto criminale e adoperata per veicolare opinioni contro l’ergastolo ostativo e i rigori sulle misure alternative.
Lo scrittore rivendica, dal suo punto di vista non senza un qualche fondamento, la propria libertà di poter esprimere giudizi anche aspri su chi accetta di esporsi, nell’agone politico, alle opinioni dei giornalisti. La rivista, c’è da immaginare, parta da un punto di vista quasi simmetrico: il carcere può e deve limitare la libertà personale, ma da nessuna parte è scritto che possa limitare la libertà di opinione e la manifestazione pubblica delle proprie idee. Non è necessario scorrere in questi giorni in tv il cupo ricordo del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro per ricordare la piena libertà che gli irriducibili delle Br o di Prima Linea, da detenuti, avevano di fare proclami, interventi e leggere comunicati pur violenti nei toni, se non addirittura istigatori. Lo Stato ha il pieno diritto di recludere chi ha commesso reati, ma non è mai giunto a vietare di esprimere opinioni su temi generali e questioni di interesse collettivo.
Certo esiste la censura sulla corrispondenza, i colloqui con i parenti possono essere intercettati, persino lo scambio epistolare con i difensori non sfuggiva a controllo per i detenuti a 41-bis e c’è voluta la Corte costituzionale – con parole esemplari – per ricordare che le esigenze di sicurezza non possono spingersi sino a ficcare il naso nelle comunicazioni tra i carcerati a regime duro e i loro avvocati (sentenza 18 del 2022). Non è neppure da discutere che legittimamente dei cittadini si sentano minacciati dalla gestione di una rivista curata da detenuti; c’è chi ha paura degli immigrati, chi dei fantasmi, che dei marziani, chi dei vaccini, chi degli acari. Ciascuno ha diritto di esporre all’autorità pubblica tutte le proprie preoccupazioni. Lo Stato è lì per questo. Tuttavia, occorre stare attenti a non creare distanze siderali tra la libertà sacrosanta che compete alla stampa, e alla cultura in generale, e la libertà di cui ciascun cittadino non può essere espropriato anche se detenuto. La decisione della Consulta di rinviare alla Corte di cassazione il procedimento in cui doveva decidere della legittimità dell’ergastolo ostativo (e non solo) è probabilmente ineccepibile, soprattutto in presenza di una norma approvata con un decreto legge che ha appena iniziato il suo iter parlamentare. Ma il problema resta sul tappeto.
Non si pretende che la collaborazione con la giustizia sia l’unica via per accedere ai benefici penitenziari, ma il legislatore ha posto una serie di paletti che renderanno davvero ardua la mitigazione reale del regime duro. Ci può stare, sia chiaro, il Parlamento deciderà quale sia la strada migliore. Ma nel frattempo nessuno può pensare di silenziare (o peggio di censurare) la voce dei detenuti su queste questioni. È importante sapere quali siano le proposte che vengono da quel mondo frastagliato, disomogeneo, frastornato e anche disperato che sta sotto i rigori del carcere duro, del cosiddetto “fine pena mai”. Lo Stato non ha alcun interesse ad accreditare un gruppo di detenuti che hanno rifiutato la collaborazione pur dopo decenni di carcere di massimo rigore come un manipolo di eroici “irriducibili”. Perché questa è la percezione che – all’esterno delle mura, fuori dalle carceri, nelle periferie palermitane o napoletane o nei paesi dirupati dell’Aspromonte – si finirà per avere di quei carcerati tra le giovani leve della criminalità mafiosa.
L’intransigenza penitenziaria sta lentamente trasformando un gruppo di violenti mafiosi in una sorta di élite carceraria, di supereroi delle celle che non si sono piegati alla durezza della detenzione e al “ricatto” della collaborazione di giustizia. Un gioco pericoloso e perverso in cui la legge ha il dovere di porre nuove condizioni e indicare nuove strade per stanare quella parte della popolazione carceraria dalla “nobile” enclave in cui si è trincerata e in cui è stata anche sospinta dai furori della pena. Una via potrebbe essere quella di invitarli a dichiararsi vinti una volta per tutte; ad ammettere di aver bruciato le proprie vite nel falò della violenza e della sopraffazione; di dichiararsi sconfitti per la tenace lotta che lo Stato gli ha fatto facendoli condannare e braccandoli nei loro nascondigli. La resa come percorso di rieducazione e come messaggio definitivo alle giovani generazioni che possono cadere nel medesimo errore e perdersi nella stessa spirale di dolore.
Una terza via tra un ergastolo ostativo chiaramente incostituzionale e una prova di cambiamento difficile, se non impossibile come quella tracciata dal nuovo decreto legge. La conversione del decreto avverrà senza modifica alcuna probabilmente. Nessuno è disposto a farsi carico di una posizione diversa da quella dell’intransigenza a tutti i costi. Eppure. Eppure non si può negare che la voce proveniente dalle celle più oscure e severe, dagli anfratti più duri del pianeta carcerario debba essere ascoltata e compresa perché lo Stato è il primo ad avere interesse a una vera rieducazione, a un riscatto e a una rinascita. Che parlino e che scrivano pure, finché lo fanno riconoscono che la Repubblica esiste e che ha una dignità che nessuno delitto può scalfire. Il silenzio è la madre di ogni odio e il crogiolo di ogni cattiveria.
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