Il dibattito sul ddl zan
L’identità di genere merita riflessione, c’è il rischio caos
La radicalizzazione dello scontro politico sul ddl Zan è particolarmente grave perché sta trasformando una questione delicatissima in un conflitto manicheo all’insegna della semplificazione. Rischiano così di rimanere schiacciate le due dimensioni reali che dovrebbero interessare. La prima è quella della comprensione dei fenomeni che si intende disciplinare. La seconda è quella degli specifici problemi tecnico-giuridici per farlo.
Il primo aspetto è oggetto di un dibattito che interessa non solo la cultura e gli orientamenti sociali, ma anche settori disciplinari specifici come la sociologia, la psicologia e persino la filosofia. È noto che tale dibattito, legato agli studi di genere, non è recente, ma è altrettanto noto che nel tempo si è andato arricchendo di nuovi contenuti e “frontiere”. Non è un caso ad esempio che la American Psychological Association (Apa) solo nel dicembre 2015 abbia diramato delle linee guida per i propri associati su come affrontare il fenomeno delle persone Transgender e Non conforming, coloro cioè che abbiano un’ “identità di genere non completamente allineata con quella del sesso loro riconosciuto alla nascita”. Nel 2017, una speciale inchiesta del National Geographic è stata dedicata alla Gender Revolution in tutto il mondo. In quel contesto, Susan Goldberg ricordava come l’app Tinder avesse identificato circa 40 identità di genere a fronte delle 50 di Facebook.
Non stupisce che di fronte a un tale fenomeno si possa sviluppare ogni sorta di atteggiamento, dal più scettico al più entusiasta. E forse non è nemmeno compito della politica prendere una posizione epistemologica su processi culturali così complessi, radicali e, soprattutto, in divenire. Nella prospettiva dell’identità di genere, infatti, anche i confini con le altre manifestazioni culturali o sociali dell’identità rischiano di attenuarsi. Sono le stesse linee guida dell’Apa a ricordare che l’espressione di genere può “avere una notevole intersezione con altri aspetti dell’identità”.
Di fronte alla vastità di tali problematiche, che finiscono per investire il cuore della soggettività, la questione di come il diritto si debba porre, e con quali tecniche e modalità, non può essere frettolosamente liquidata. E per questo la strumentalizzazione politica del dibattito è gravissima. La complessità delle manifestazioni umane ha indotto i costituenti italiani (al pari di altri) a prevedere una tutela generale della dignità umana e sociale, senza discriminazione alcuna (art. 3). Ciò non esclude che possano esservi ulteriori interventi di speciale protezione o di specifica promozione (si pensi all’accesso ai pubblici uffici dei cittadini “dell’uno e dell’altro sesso”, art. 51, o alla tutela del lavoro, art. 37 Cost.). La discrezionalità legislativa in materia non esime, però, da una valutazione delle tecniche e delle modalità degli interventi.
Il dibattito sul ddl Zan, per quanto inquinato dalla polarizzazione partitico-ideologica, non è dunque inutile, ed è anzi giustificato dalla salienza delle questioni che intende affrontare. Questioni che forse, riguardando una concezione della società e dei suoi componenti che si è molto trasformata dal 1948, richiederebbero un dibattito costituzionale.
Vi sono tre specifici profili critici del ddl quanto alle tecniche di politica del diritto.
Innanzitutto, aspirando a una sistemazione giuridica di categorie, esso ricorre a definizioni, in parte nuove, senza considerare che alcuni termini erano già presenti nell’ordinamento, ma con significati diversi. Ciò pone un problema di coordinamento di notevole complessità. Si pensi al concetto di genere o di identità di genere che, per lo più, sono stati sinora utilizzati dal legislatore e dalla giurisprudenza (anche costituzionale) come sinonimo di identità o di orientamento sessuale, mentre le nozioni proposte dal ddl Zan alludono a concetti sensibilmente differenti.
Ciò genera un secondo problema. Nel definire tali nuove categorie il legislatore ricorre ai cosiddetti concetti giuridici indeterminati (cioè extra-giuridici), il cui significato deve, cioè, ricavarsi al di fuori dell’ordinamento, ricorrendo ad altre scienze, alla coscienza sociale o alla “percezione di sé”. Definendo il “genere” come “qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso” si assume che qualcuno sia in grado, fuori del diritto, di compiere un’attendibile ricognizione delle (mutevoli) aspettative sociali. Certo, i concetti giuridici indeterminati esistono (si pensi al senso del pudore), ma bisogna aver chiaro che, nel ricorrere ad essi, il legislatore compie una precisa scelta di trasferimento del potere. Rinuncia in larga misura a definire, e rinvia alle definizioni di altri operatori, a cominciare dai giudici, con le oscillazioni che ne possono derivare. Ciò vale a maggior ragione per concetti nuovi, della cui esatta portata si discute ancora anche negli ambiti scientifici in cui sono stati elaborati.
Circostanza ulteriormente preoccupante atteso che la scelta di affrontare e codificare tali nozioni si trova in un progetto che ha ad oggetto la materia penale, nella quale vige il principio costituzionale di tipicità dei reati (art. 25 cost.) e in cui le conseguenze sanzionatorie sono le più afflittive. A ciò si aggiunga che, per limitare la portata delle norme penali introdotte, il ddl ricorre a nozioni anch’esse piuttosto indeterminate, per cui, ad esempio, sarebbero fatte salve le opinioni e le condotte legittime “riconducibili al pluralismo delle idee e alla libertà delle scelte”. Mettendo di fronte due concetti indeterminati o scarsamente determinati, difficilmente il risultato sarà una chiarezza dei reciproci confini.
Oltre alle opzioni culturali di merito politico, ci sono dunque importanti problemi di tecnica legislativa. Per questo discutere non è inutile, tanto più se lo si facesse in modo laico e non nel contesto assordante del rullare di tamburi e del sibilare di pifferi.
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