La testimonianza di una resilienza autentica
L’immagine di Papa Francesco in ospedale e la forza del limite

“Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza. […] Quando sono debole, è allora che sono forte.” Le parole della lettera di Paolo alla comunità cristiana di Corinto (cfr 2Cor 2,19) risuonano come un paradosso per noi oggi, forse, insopportabile. La forza non si manifesta nella negazione della fragilità, ma nel suo abbraccio. Non è l’autosufficienza a rendere l’uomo saldo, ma la consapevolezza che la debolezza può diventare il luogo di una potenza più grande. Lo sapeva bene anche Orazio, quando nelle Odi scriveva (III, 3, vv. 7-8.) che la vera forza non sta nella rigidità inflessibile della quercia che si spezza sotto il peso della tempesta, ma nella capacità della canna di piegarsi senza spezzarsi. Non è la resistenza ostinata e solitaria dell’eroe, ma l’accettazione della fragilità come spazio di relazione, di affidamento, di comunione.
È in questa logica che si inserisce l’immagine di Papa Francesco, diffusa ieri dai media vaticani dopo 31 giorni di ricovero al Gemelli. Una foto diventata iconica e impressa nella memoria collettiva poiché attualizza da sempre la missione di un pontefice, successore di Pietro a cui fu detto: “Quando eri più giovane, ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio, tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste”. Lungo la distesa del tempo al Papa viene chiesto di portare avanti la sua missione con quel “seguimi” che si distende lungo la storia cristiana da secoli fino ad oggi. L’immagine – attesa dai fedeli – mi richiama anche alla memoria Karol Wojtyła in quel drammatico Venerdì Santo del 2005 e per quanto siano due contesti storici ed ecclesiali differenti, questi scatti sono legati da un unico filo rosso di significato: la memoria del limite come “luogo” sia teologico che antropologico. La certezza della nostra fragilità e finitudine – dati ineludibili della condizione umana – è oggi messa radicalmente in discussione da una società che si illude di essere postmortale. Una cultura che rifugge l’idea di essere fragili, come se l’età e il decadimento fisico fossero un’anomalia da correggere anziché una fase naturale della vita. Un modo di vivere insofferente alle imperfezioni, che esalta la performance continua e pretende di essere sempre off-limits, supereroico, in costante superamento di sé stesso. Eppure, questa im-postura narcisistica non risparmia nessuno, nemmeno noi stessi come dimostra la nostra incapacità spesso di accettarci per quello che siamo, il bisogno compulsivo di filtri digitali, l’ansia di rifare trenta scatti per paura di non “venire bene nei selfie”.
L’immagine del Papa in preghiera, curvato sì dalla sofferenza ma fortificato nello spirito, è già di per sé un atto di magistero: è la testimonianza di una resilienza autentica, non quella che si alimenta di facili slogan motivazionali, ma quella che assume il limite e lo trasfigura. Anziché lasciarsi tentare dal paradigma dell’uomo assoluto (ab-solutus), sciolto da ogni vincolo e illuso di potersi bastare, Bergoglio sceglie il “relativo”, nel senso più profondo del termine: si affida cioè alla relazione con Dio e con i fratelli, accettando il limite non come una condanna, ma come occasione di comunione nel tempo della malattia. Un compagno di strada anche in questo senso nel proseguire terapia e lavoro nel Policlinico romano divenuto da oltre un mese la sua residenza. “Un momento di prova”, come ha scritto nell’Angelus di questa domenica, unito a tanti malati “fragili, in questo momento, come me”. Ecco allora le due polarità su cui il pontefice costruisce un arco di tensione: il limite come cifra dell’umana debolezza e la relazione come la forza che impedisce di sentirsi soli e dispersi.
Infine, quell’immagine – fortissima, eppure pudica, discreta, di tre quarti – è un monito anche per il nostro tempo ipermediatico: la comunicazione deve saper darsi un limite, soprattutto di fronte al dolore e alla malattia. C’è un senso della misura che andrebbe recuperato. Non tutto è social. Ci sono momenti – anche per i Papi – in cui bisogna spegnere i dispositivi e lasciare che sia il silenzio a parlare.
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