Nel magnifico film “Il declino dell’impero americano”, 1986, il regista Denys Arcand disegnava una crisi sottile ma profonda del comune sentire dei cittadini. La fiducia nel loro trascinante e famoso “sogno” iniziava a vacillare, qualcosa di epocale stava accadendo. Non a caso, il sequel del 2003 si intitolava “Le invasioni barbariche”. Oggi quel declino è fisico, si vede, si tocca. Si parlava fino a ieri della sconcertante inerzia dei democratici nel lasciare sul podio un leader di 81 anni agli antipodi di ogni nuova frontiera, da conquistare o anche solo da difendere. Incerto, balbettante, smarrito, lontano anni luce dall’idea di poter essere, nei prossimi quattro anni, il faro della democrazia globale. All’inadeguato Joe Biden, i repubblicani avevano contrapposto un’altra personalità improponibile.

Donald Trump era infatti il riconosciuto promotore di un atto sovversivo, l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. I due grandi partiti americani si erano entrambi riflessi nello specchio del loro fallimento. Si erano dimostrati incapaci di esprimere novità politica e sintonia con il futuro. Ma ieri è accaduto qualcosa che non c’entra nulla con l’incepparsi della rappresentanza politica. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha concesso all’ex presidente Trump un salvacondotto totale riguardo alla sua accertata complicità con i fatti del 2021. Si badi bene: non è entrata nel merito, ritenendo insussistenti o non dimostrate le sue responsabilità. Ha stabilito un principio generale valido per ogni presidente americano, che da oggi diventa equiparabile al capo di un governo militare: nell’esercizio delle sue funzioni esecutive, il presidente Usa ha un’immunità penale assoluta. Anche se attenta alle istituzioni. Anche se provoca un’insurrezione.

Scorrono davanti agli occhi i fotogrammi di quei giorni drammatici. Il cuore pulsante del governo americano fu aggredito, profanato, persino ridicolizzato. Migliaia di sostenitori di Trump, da lui aizzati sulla base della tesi che le elezioni presidenziali erano state truccate, divennero protagonisti di un assalto al Palazzo d’Inverno senza zar, di una marcia su Roma senza neppure una guerra e dei reduci. Fu l’apoteosi della malattia senile delle democrazie, il populismo. Un semplice appello alla sovversione fu in grado di mettere sotto scacco la più grande democrazia mondiale: 5 morti, 140 feriti, uffici devastati. Le immagini che irridevano la sacralità di quei luoghi fecero il giro del mondo. Oggi, la contingente convenienza politica – la Corte Suprema a maggioranza conservatrice – ha prevalso su ogni senso di responsabilità. “La Corte ha dato a Donald Trump le chiavi di una dittatura”, dicono dallo staff di Biden, riferendosi all’eventualità che Trump vinca le elezioni e poi proceda senza più argini. Ma la questione, com’è evidente, non riguarda solo Trump.

La sentenza della Corte insiste sull’insindacabilità di ogni azione presidenziale, comprese le pressioni sui funzionari per non riconoscere come legittimi dei risultati elettorali, e compresa, appunto, la facoltà di parlare al popolo senza alcun limite. Da oggi, fra il capo che parla – in tv, nei comizi o sui social – e la gente che ascolta, non c’è più nessuno che possa interferire. Anche se il capo incita a rovesciare le istituzioni perché non riconosce una sconfitta nelle urne. Il piglio incendiario di Trump, il suo isolazionismo e lo slogan “America first” sono ormai preistoria. Fatti e folclore di tempi in cui la politica aveva ancora dei confini e delle regole. Chissà se gli orfani europei dell’antifascismo oggi rifletteranno su cosa significhi, potenzialmente, ciò che è accaduto oltreoceano. Chissà se nascerà la consapevolezza che la sua guerra Vladimir Putin la sta vincendo non “contro” le democrazie ma “grazie” alle loro contorsioni e involuzioni.

“Dagli americani abbiamo imparato tutto. Se non ci fossero gli americani, saremmo europei”, diceva ironicamente Giorgio Gaber. Ma è vero il contrario: è anche grazie alla solidarietà con gli Usa che abbiamo potuto far fiorire nel Vecchio Continente le esperienze più avanzate di libertà, pluralismo ed equità sociale. Certamente, ora l’Europa è ad un bivio. Di fronte alla pronuncia della Corte americana, alcuni leader dell’Unione hanno tutt’al più aggrottato la fronte. Toni morbidi che stridono con il trionfalismo del capo del governo polacco o del solito Nigel Farage. Il professor Rémy, protagonista de “Le invasioni barbariche”, malato terminale rapito da ricordi e malinconie, a un certo punto è davanti al lago dei suoi anni giovani, e dice agli amici di una vita: “Siamo stati belli, idealisti e pieni di speranze. Ora siamo solo vecchi”. Da oggi, noi europei siamo più soli, e se vogliamo rimanere “giovani”, cioè mantenere accesi ideali e speranze, dobbiamo imparare a vivere di noi stessi.

Sergio Talamo

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