L'intervista
L’imprenditore Antonio Marcegaglia: “Green Deal appena sufficiente, a rischio la siderurgia europea”

«Alla riunione do voto 8. Il Green Industrial Deal si ferma al 6». Antonio Marcegaglia, presidente e ceo di Marcegaglia, promuove la Commissione Ue, dopo averne incontrato i vertici a Bruxelles insieme ai rappresentanti della siderurgia europea. «Rispetto al passato è cambiato il format. Ne ho apprezzato il dialogo e la chiarezza sulle criticità della nostra filiera: energia, decarbonizzazione, ma anche competitività», commenta dal suo ufficio nel quartier generale del Gruppo. A Gazoldo degli Ippoliti, nel mantovano, pulsa il cuore di una multinazionale che ci tiene alle sue radici. Lì è iniziata l’impresa del padre Steno, nel 1959, portata avanti dai figli, Antonio ed Emma, e oggi custodita nel museo aziendale, “Casa Marcegaglia”, dove passato e innovazione si fondono e confermano il ruolo dell’acciaio, «spina dorsale di buona parte dell’industria manifatturiera».
È di ieri la decisione della Ue di imporre dazi. Un approccio forzato da Trump o l’Europa si è svegliata?
«Sicuramente c’è stata un’accelerazione dovuta all’arrivo del nuovo presidente Usa. Anche il piano di Difesa comune europea non credo ci sarebbe stato senza le sue provocazioni. Poi, forse, lo stesso rallentamento dell’economia ha convinto Bruxelles a cambiare passo. Dopo il biennio positivo del 2021-22, i nodi stanno venendo al pettine».
La scorsa settimana era a Bruxelles con i vertici della Commissione: è soddisfatto dell’incontro?
«Darei un 8. Sono emersi dei segnali incoraggianti. Con il caveat su come e in che tempi questa politica si tradurrà in provvedimenti operativi. E su come si perseguono gli obiettivi della decarbonizzazione: bisogna essere consapevoli che, oggi, la siderurgia europea pesa il 10% del mercato globale. C’è un tema serio di competitività da affrontare».
In questo momento von der Leyen è la donna più decisionista d’Europa: è un bene per le imprese?
«Ha dei poteri senza precedenti. Ha distribuito le deleghe, ma ha reso il suo ruolo ancora più determinante. Questa fluidità nella catena di comando era auspicabile. La distanza tra i decisori e la realtà industriale era diventata eccessiva».
Caro-energia e decarbonizzazione. Cos’è più preoccupante per voi?
«Sui costi energetici è emersa la volontà di puntare a prezzi più competitivi. Con quelli che paghiamo oggi non possiamo reggere molto. Serve una soluzione concreta e di impatto immediato. Poi è stata dimostrata attenzione alle materie prime. In particolare al rottame, fondamentale per decarbonizzare la filiera. Si tratta di passare dalle fonti fossili al riciclo e alla circolarità. E poi si è parlato di premialità per l’acquisto e l’utilizzo di acciaio green, i cui costi non posso ricadere solo sui produttori».
A proposito di energia, il nucleare è una soluzione?
«Il nucleare costa. Soprattutto quello di nuova generazione. Però bisogna affrontare il tema ragionando di mix energetico e di neutralità tecnologica, senza favorire per ideologia alcune fonti rispetto ad altre».
Carbone compreso?
«Credo che il carbone abbia fatto la sua storia, anche se farne a meno dall’oggi al domani è velleitario. Discorso diverso per il gas, che può essere una risorsa per la transizione. Per decarbonizzare la produzione siderurgica europea da ciclo integrale servono tempo e risorse ingenti. Stiamo parlando di riconvertire il 60% della produzione totale. Occorre gradualità. Altrimenti rischiamo di ridimensionare la siderurgia europea».
La Cbam va ripensata?
«La Cbam (Carbon Border Adjustment Mechanism, il meccanismo Ue che preclude le importazioni ad alta intensità di CO2 per evitare la delocalizzazione delle emissioni, ndr) è di fatto una tassa alle importazioni. Ma per com’è concepita rischia di impattare in una logica distorsiva anche sulle catene del valore. L’altro giorno a Bruxelles si è parlato anche della sovracapacità dei mercati asiatici, sussidiati – vedi la Cina – che esportano a bassi prezzi. Da questi bisogna proteggersi. Tuttavia, catene del valore competitive e rispettose di princìpi di sana concorrenza vanno salvaguardate».
In un clima di dazi, fa però riflettere che l’Ue metta le sue tariffe.
«Io non sono un fan del protezionismo. In un mondo che si chiude, però, se restiamo troppo aperti rischiamo di compromettere le nostre imprese. D’altra parte, ancora, quella europea è un’economia di trasformazione. Non abbiamo materie prime. Non abbiamo energia. Il mercato interno di riferimento è in saturazione. Si deve fare sintesi tra il rimanere legati alle catene globali del valore e proteggersi dalla concorrenza sleale. La mossa di ieri della Ue mi pare una contromisura necessaria».
Dobbiamo trovarci dei Paesi amici?
«Parlerei più di Paesi che rispettano le regole, che non applicano sussidi smisurati e che sono impegnati a decarbonizzare. L’industria non può essere esposta alla sovracapacità propria di alcuni Paesi che giocano con regole diverse dalle nostre. Ripeto, le regole devono essere uguali per tutti».
È più difficile convivere con la Cina o con Trump?
«Le politiche industriali di Pechino sono aggressive. Augurarsi però che la Cina vada male non fa bene a nessuno. Il Paese deve trovare un suo equilibrio. Perché resta un soggetto importante su scala globale. E per l’Italia in particolare».
E gli Usa?
«Sono nostri partner, da cui non possiamo prescindere. Per questo mi auguro che questa muscolarità si limiti a essere un’arma negoziale e che si trovi un equilibrio più ragionevole. Al di là di eccessi che non sono condivisibili, Trump solleva alcune tematiche che hanno un fondamento. Penso alla Difesa, per esempio. Era una questione da affrontare. Ora lo stiamo facendo. Come dovremmo affrontare il debito comune…».
Diamo un voto al Green Industrial Deal?
«6! Il Green Deal era stato concepito come un obiettivo a sé stante, che non dialogava con gli altri elementi. Il Green Industrial Deal oggi sembra ragionare in maniera diversa, tenendo in conto anche fondamenti di competitività».
Chiudiamo con Fos-sur-Mer. Per voi l’operazione è strategica.
«Sì. Per ragioni economiche e di filiera, che si sommano agli obiettivi di decarbonizzazione. Per il Gruppo era necessario aumentare la quota di produzione in rapporto alla trasformazione, nostro core business. Fos-sur-Mer coprirà circa il 35% dei nostri fabbisogni. Inoltre, l’acciaio sarà prodotto a partire da rottame e da Green DRI, e andrà ad aggiungersi ad altri progetti green, come quello di Stegra a Boden, in Svezia, di cui siamo partner fin dall’inizio. O il progetto di cattura della Co2 a Ravenna».
È stata una partita Italia-Francia?
«La definirei piuttosto un’operazione europea. E devo dire che il governo francese, sia a livello centrale sia locale, ha rivolto la massima attenzione a un’impresa italiana».
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