Il caso
L’incredibile storia del comune di Trecastagni, sciolto per due dipendenti indagati…
Raccontano i libelli di storia popolare che Trecastagni, borgo di poco più di diecimila abitanti alle pendici del vulcano Etna, si chiami così perché Alfio, Cirino e Filadelfo, i tre patroni del paese, abbiano soggiornato lì prima del martirio. Tres Casti Agni: quei santi erano “tre casti agnelli”. Può capitare pure che la “castità” di un ridente territorio, anche se consacrata finanche nelle storie dei santi, venga sacrificata sull’altare del sospetto di mafia e possa diventare talvolta il “martirio civile” di una intera comunità. Avviene sovente in Sicilia e la vittima sacrificale di una delle storie di straordinaria ingiustizia, che riguardano lo scioglimento discrezionale dei comuni del mezzogiorno per mafia, è stato proprio il paese dei “tre casti agnelli”: Trecastagni.
Quel fazzoletto di terra è diventato esso stesso un agnello sacrificale. Sacrificata è stata la giunta di quel comune e il suo sindaco Giovanni Barbagallo, riconosciuto da tutti come politico onesto e rigoroso. Dalle parti del vulcano, la Prefettura catanese, notificò infatti l’8 maggio 2018, alle ore 14:30, un decreto di scioglimento. Proprio alla vigilia di una delle feste religiose più partecipate della Sicilia: il 10 maggio. La festa in onore di Alfio, Filadelfo, Cirino, aveva resistito pure alle bombe delle due guerre mondiale: si è arresa dinnanzi alla furia implacabile della nostra legislazione antimafia. Gli intendenti prefettizi dichiararono che gli amministratori dovessero andare a casa sulla base dello stigma peggiore: possibili rapporti con la mafia. Ciò, non perché vi fosse neanche la più lontana congettura che un pezzo del ceto politico avesse rapporti con la criminalità, ma per un’inchiesta che aveva colpito, a proposito di mafia, due dipendenti comunali. Cosa c’azzecchino due dipendenti con un sindaco, una giunta, un consiglio comunale, nel tempo della separazione tra indirizzo e gestione, è inspiegabile! Eppure quegli amministratori sono stati infangati, un intero territorio sporcato, ancorché il Tribunale (ordinanza n. 4011/2019) e la Corte d’Appello di Catania (n. 2722/2020) abbiano ex post chiaramente dichiarato che a carico del sindaco “non emergono collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata”. C’è di più: i dipendenti inquisiti sono stati condannati il 15 luglio 2021 dalla Prima Sezione Penale del Tribunale di Catania, escludendo però l’aggravante del metodo mafioso.
È legittimo chiedersi: chi risarcirà mai gli abitanti di Trecastagni del danno di immagine patito; quel sindaco e quella giunta, ingiustamente espropriati dal ruolo che ricoprivano? Oggi occorre una riflessione vera intorno all’art. 143 del D.L. 267/2000 che non prevede il diritto alla prova, su una disciplina dello scioglimento dei comuni che non ammette contraddittorio, diritto alla difesa, parità di trattamento tra le parti. Siamo al di fuori dalle colonne d’Ercole del giusto processo. Si può davvero pensare che un funzionario prefettizio, chiunque esso sia, un prefetto, un ministro dell’interno possano inaudita altera parte annullare il corso democratico di una comunità? È ancora tollerabile la resistenza del Consiglio di Stato che continua a sostenere la natura preventiva e non sanzionatoria della disciplina, laddove la prevenzione è invero il viatico per evitare il confronto con le conquiste dello stato di diritto? Per quale ragione peraltro questi provvedimenti draconiani riguardano sempre e comunque solo comuni medio piccoli – ove nella maggior parte dei casi gli amministratori sono inermi e slegati da vere logiche di potere – mentre le grandi città appaiono protette da un’egida di intangibilità?
Prevenire, scrive spesso Sergio D’Elia, a volte è peggio che punire. Prevenzione ed emergenza sono diventati pezzi dell’armamentario marziale del diritto dell’hostis, del nemico degli ultimi trent’anni di illegalesimo legale. Si legittima l’intervento di un prefetto sulla base di un’emergenza perenne, di un pericolo costante, del ripudio di fatto delle conquiste dell’illuminismo giuridico, della nostra civiltà. La verità è presto detta: lo scioglimento di Trecastagni è avvenuto in modo medioevale e ciò capiterà spesso sin quando il Parlamento non avrà il coraggio di interrompere una “continua corsa agli armamenti”, sminare il campo dalla discrezionalità e dall’arbitrio. Si potrebbe obiettare: a chi interessa di un piccolo comune di diecimila anime?
Eppure la vicenda di Trecastagni non può essere condannata all’oblio come se nulla fosse accaduto. Sciascia forse redivivo gli avrebbe dedicato finanche un pamphlet. È vero: sono storie di provincia. Di quella provincia nella quale ci si alza la mattina per lavorare e ci si accontenta di poco. Di un caffè al bar la domenica mattina, della processione di un santo patrono. Sciascianamente “non v’è nulla di più provinciale dell’accusa di provincialismo”. Trecastagni come metafora nazionale? Proprio così. Se non si interviene presto su quei codici, su quelle pandette, il diritto morirà ogni giorno.
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