Da campione del mondo a cliente indesiderato dalle banche per la vicenda giudiziaria che ha travolto la sua famiglia. È il calvario che sta vivendo Vincenzo Iaquinta, ex attaccante di Juve e Udinese e della nazionale di Marcello Lippi che nel 2006 vinse il Mondiale in Germania. Suo padre, Giuseppe, 64 anni, è in carcere dal 2018 e sta scontando una condanna in Appello a 13 anni (in primo grado erano 19) per associazione di stampo mafioso. «Il cognome Iaquinta deve tornare pulito come era prima. Tutto questo è umiliante ma ho fiducia nella giustizia e nella Cassazione», spiega Iaquinta che prende le distanze dal mondo della ‘ndrangheta. «Ho guadagnato soldi puliti grazie al calcio, io e la mia famiglia non ci andiamo a sporcare con queste merde, perché così vanno chiamate».

L’ex attaccante vuole andare fino in fondo per provare l’innocenza del genitore. E lo annuncia nello studio di Pasquale Muto, uno degli avvocati che sta seguendo l’inchiesta che ha coinvolto il padre, rientrato negli oltre 100 arresti dell’operazione Aemilia (gennaio 2015) contro la cosca Grande Aracri, originaria di Cutro (Crotone) ma radicata nel Centro Italia con base Reggio Emilia. Indagine condotta dall’allora sostituto procuratore Marco Mescolini, poi nominato capo della procura emiliana prima di essere trasferito per “incompatibilità ambientale” a Firenze perché coinvolto nelle chat con l’allora consigliere del Csm, Luca Palamara. Una inchiesta show in cui sono finiti nel tritacarne, oltre alla famiglia Iaquinta, politici e imprenditori edili (quelli originari di Cutro esclusi quasi a prescindere dalla White List, l’elenco delle imprese non compromesse con ambienti criminali e ammesse a partecipare agli appalti per la ricostruzione post terremoto). Nel tritacarne è finito anche l’avvocato Giuseppe Pagliani, consigliere locale di Forza Italia, assolto a fine 2020 in Appello dall’accusa di concorso esterno.

Giuseppe Iaquinta è in carcere da tre anni «per le dichiarazioni dei pentiti e alcune intercettazioni dove ci sono persone (Romolo Villirillo, Nicolino Sarcone e Alfonso Paolini, ndr) che parlano di lui», spiega Vincenzo. «Non c’è nessuna prova che fa parte della ‘ndrangheta, solo indizi, supposizioni, tutto materiale non riscontrato. Eppure è lì dentro (carcere di massima sicurezza di Voghera, ndr)». Vincenzo, invece, è stato condannato a due anni (con il beneficio della sospensione condizionale) per la mancata custodia di due pistole, regolarmente denunciate, ma trovate a casa del padre, a cui in quel periodo non era stato rinnovato il porto d’armi dopo l’interdittiva. Secondo l’accusa papà Iaquinta era a disposizione della cosca per dar vita a un’associazione di imprese vicine alla ‘ndrina e chiamate a contrastare quelle con il bollino antimafia.

Inoltre si avvaleva della cosca per recuperare ben due ombrelloni rubati in spiaggia in Calabria e veniva coinvolto in una operazione di riciclaggio (“affare Blindo”) mai concretizzatasi, in cui il suo nome viene pronunciato dai referenti del boss Nicolino Grande Aracri, pentitosi di recente (le sue prime rivelazioni sono al vaglio della procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri) e da una commercialista di Bologna (Roberta Tattini) che ha poi ritrattato tutto dopo aver inizialmente fornito particolari non riscontrati. «Il 19 giugno 2011 – racconta l’ex centravanti – ero di ritorno dal matrimonio di Bonucci. Ero in macchina con Marchisio e sono arrivato a casa mia, a Reggiolo, alle 16. La Tattini sostiene di avermi incontrato, insieme a mio padre, in un bar a Gualtieri, a 20 chilometri da Reggiolo, intorno allo stesso orario. Poi ha ritrattato tutto sostenendo che non era a Gualtieri ma a Reggiolo alle 19.30. Ci ritroviamo a doverci difendere da questa roba qua», commenta.

Oltre alle intercettazioni e alle parole dei pentiti, ci sono foto e partecipazioni a cene o pranzi. Non è mai stato tenuto in considerazione il contesto socio-culturale.
Lui conosce tutti. Con Paolini ha giocato a calcio tanti anni. Con Grande Aracri ha un legame di parentela perché la figlia ha sposato il figlio di una sorella di mio padre. Ma che ci può fare? Ha 10 fratelli e da quasi 50 anni vive al Nord. A Cutro ci tornava per matrimoni, funerali o d’estate. E poi veniva tartassato da tutti.

Per la tua notorietà?
Quando sono diventato famoso nel calcio anche lui era considerato un riferimento sia a Reggiolo che al sud. Tutti lo chiamavano per chiedergli una maglietta, una foto con me, i biglietti per le partite.

Come è nata la foto con il boss Grande Aracri?
Estate 2011, ero a Porto Kaleo con la mia famiglia. Il fratello mi dice che Nicolino Grande Aracri voleva incontrarmi per una foto, una maglietta. Io dissi che non c’erano problemi e all’incontro andai con tutta la mia famiglia: mio padre, mia moglie, i miei figli, mia suocera, mio cognato, i miei zii. Una persona presente scatta una foto, la pubblica sui social e per gli inquirenti quello è diventato un summit, a mezzogiorno e sotto il sole, per parlare dell’affare dell’eolico. Ma per piacere.

Da allora sono iniziati i problemi?
Di lì a poco. Mio padre è incensurato. Non ha dieci aziende ma una sola da decenni. Ha lo stesso commercialista da 40 anni. Con le banche aveva dei mutui. Non hanno mai trovato una fattura falsa né movimenti bancari sospetti. Nulla. Su consiglio dell’avvocato Taormina, che ci ha seguiti in primo grado, si era anche autodenunciato in Procura dopo aver subito l’interdittiva.

E i controlli?
Zero. Si sono solo presentati il giorno dell’arresto, nel 2015. Nei mesi successivi viene accolto il nostro ricorso ed esce dopo 58 giorni di carcere. Poi nel febbraio 2016 anche la Cassazione ha ritenuto il carcere non necessario per mancanza di gravi indizi di colpevolezza.

La sentenza di primo grado nel 2018 è stata pesante. In Appello, a dicembre 2020, alcuni racconti dei pentiti non hanno retto.
19 anni sono un macigno, soprattutto quando ti sbattono dentro senza prove concrete. Poi la condanna è scesa a 13 anni perché per i giudici mio padre faceva parte dell’associazione mafiosa dal 2012 al 2015 e non fino al 2018, come avevano raccontato dei collaboratori di giustizia. Aggiunge l’avvocato Muto: «Non sono mai emersi riscontri eterogenei su Iaquinta. La prova non è diretta su Giuseppe ma sempre tramite altri. L’accusa costruisce un puzzle secondo cui Iaquinta è colpevole perché non poteva non sapere che tutti gli altri si interessavano di lui in quel modo. Adesso attendiamo le motivazioni dell’Appello che dovrebbero arrivare entro metà giugno: capiremo perché è considerato un mafioso».

Tuo padre avrebbe chiesto l’aiuto della ‘ndrangheta per recuperare due ombrelloni.
Estate 2011. I miei sono alla casa al mare in Calabria e a mio padre rubano due ombrelloni dalla spiaggia. In una delle chiamate quotidiane con Paolini, si mostra amareggiato per l’episodio. Paolini chiama Romolo Villirillo, che non aveva neanche il numero di mio padre, che si vanta poi di aver risolto il problema.

L’affare Blindo?
Una banda del Nord ruba un milione e 400mila euro da un blindato ed entra in trattativa con Villirillo. Chiedono in cambio 800mila dollari puliti. Villirillo menziona mio padre a mo’ di garanzia perché tutti sapevano che aveva quella disponibilità economica grazie al mio lavoro. L’affare inoltre non si è mai concretizzato.

La cena organizzata da Pagliani?
(Risponde l’avvocato Muto) «Alcuni imprenditori edili organizzano la cena con Pagliani dopo essere stati esclusi dalla “White List”. Giuseppe Iaquinta, che nelle intercettazioni viene fatto passare come uno degli organizzatori, arriva verso la fase finale della cena e vi resta per poco più di mezz’ora. È tutto documentato».

Come sta tuo padre?
Non lo vedo da prima della pandemia, febbraio scorso. È forte, sta resistendo ma psicologicamente è dura. Nelle videochiamate ci dice di fare qualcosa per farlo uscire.

Che idea ti sei fatto della giustizia italiana?
Sono rimasto deluso. Mai avrei immaginato una cosa del genere. Siamo sempre stati una famiglia umile, partendo da mio nonno che ha cresciuto 10 figli. Poi a 16 anni mio padre è salito con una valigia di cartone insieme a mia mamma. Ha lavorato prima a Milano poi a Reggiolo dove viveva in un buco.

Nei tuoi confronti è cambiato qualcosa dopo l’arresto di tuo padre?
Sì. Per molte persone siamo colpevoli a prescindere, ci considerano mafiosi. Fortunatamente ho tanti amici che mi vogliono bene e nel mondo del calcio mi sento ancora con i compagni di squadra del Mondiale. Ma qui, a Reggio Emilia, la mia famiglia è stata martellata sui giornali. È successo di tutto…

Un esempio?
Avevo un conto corrente alla Credem e mi arriva una lettera in cui c’è scritto che non sono cliente accettato. Passo a Generali e dopo un po’ mi arriva la stessa lettera. Alla fine ho dovuto aprire il conto alle Poste. Ti rendi conto che umiliazioni? Con i soldi puliti guadagnati durante la mia carriera da calciatore. Sto vivendo una situazione difficile insieme a mia moglie e ai miei quattro figli.

I tuoi figli hanno realizzato quello che è accaduto al nonno?
Purtroppo sì. Soprattutto sui social dove leggi di tutto. Spesso quando pubblicano qualcosa arrivano commenti poco edificanti. Insulti gratuiti. Tutto questo non è bello.

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Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.