Si dice giustizialismo e si pensa ai Cinquestelle, a Di Maio, Travaglio e Bonafede. Ma il Pd? C’è un giustizialismo che non si esaurisce nell’esibizione delle manette, ma che vede nella competenza giudiziaria l’unica, l’assoluta, la sola in grado di tenere insieme il mondo. È il giustizialismo in cui il Pd sguazza. Ecco di cosa si tratta. L’ex magistrato Paolo Mancuso, già pm anticamorra e procuratore capo a Nola, è stato appena nominato presidente del Pd napoletano. La notizia è questa, buona per chi, nel partito dei notabili, aspettava da tempo un nome capace di mettere ordine in un groviglio di interessi e meschinità, che Renzi, quando era segretario, avrebbe voluto incenerire con un lanciafiamme. Ma se questo è il fatto, il contesto è molto meno rassicurante. La scelta di Mancuso è la conferma di un forte squilibrio di sistema: la prova, a dirla tutta, di quanto si sia consolidato negli anni il sodalizio tra i magistrati “di sinistra” e il maggior partito di area. Un sodalizio che risale ai tempi della questione morale di Berlinguer, alla presunta diversità etico-politica dei “buoni” per autodefinizione, ai nomi di Luciano Violante, Anna Finocchiaro, Gerardo D’Ambrosio e Felice Casson, e che senza risalire troppo nella memoria del Pci e sorvolando sul legame tra giustizia e politica che divenne strategico nella stagione di Tangentopoli, arriva fino a oggi, quando il fenomeno, oltre che la Storia, torna a occupare la cronaca. Specialmente nel Mezzogiorno.
L’ex magistrato Gennaro Marasca, già autorevole assessore nelle prime giunte postcomuniste di Napoli, è neocomponente della direzione provinciale dello stesso Pd di Mancuso. L’ex magistrato anticamorra Franco Roberti, già assessore regionale di Vincenzo De Luca, il governatore della Campania, è eurodeputato del Pd, eletto da capolista nella circoscrizione meridionale. La magistrata Caterina Chinnici, figlia di Rocco, ucciso dalla mafia, è al pari di Roberti eurodeputata Pd eletta come capolista nella circoscrizione delle isole. E poi ci sono i Michele Emiliano in Puglia, i Pietro Grasso in Sicilia e, caso a parte, Raffaele Cantone che a differenza di tutti gli altri non è mai sceso (o salito o passato) in politica, ma continua a essere in cima ai pensieri del Pd per ogni sorta di alta carica istituzionale. La lista è talmente lunga che basta e avanza. Il partito dei giudici esiste, eccome. Ma non in senso metaforico, a indicare un orientamento di fondo, una egemonia culturale, una presenza forte ma fisicamente impalpabile. Il partito dei giudici è il Pd. Neanche il tempo di andare in pensione o di dimettersi dai ruoli – e qualche volta addirittura con la toga ancora sulle spalle – ed ecco, pronto, il posto in politica. Ormai il passaggio da una funzione all’altra è quasi un avanzamento automatico di carriera. Come lasciare la Nunziatella e passare nell’esercito. Tanto che a pensar male può farsi strada il dubbio che molto di quello che si fa prima, nelle aule di giustizia, possa essere funzionale a quel che si farà dopo, nelle sedi del partito. Ma detto questo, e subito negato per i singoli casi citati, non è che a pensar correttamente il quadro invece migliori.
A conti ultimati e lista alla mano, infatti, il Pd si presenta con una rappresentanza a dir poco sbilanciata, come se nella cosiddetta società civile non ci fossero anche imprenditori, disoccupati, operai, scienziati, creativi e professionisti a cui dare voce con pari ossequio e uguale amplificazione. Possibile mai che solo Giuliano da Empoli, in Gli ingegneri del caos, abbia notato che i consulenti più richiesti dai grandi leader mondiali siano oggi i fisici, abituati a destreggiarsi tra i grandi numeri e l’infinito pulviscolo di particelle accelerate? Peggio ancora, il Pd si presenta con una idea di Mezzogiorno inevitabilmente a una dimensione. Senza sfumature e distinguo. Una visione panpenalista, direbbe chi mangia pane e reati. Giustizialista, apocalittica, sospettistica e, in ultima analisi, punitiva e purgatoriale, diremmo noi. Come se il Sud fosse tutto e solo criminalità, intrigo gomorrista, trama oscura, capitalismo amorale e corruzione “seriale e diffusiva”, per definirla alla Davigo, e non avesse, invece, drammatici problemi di modernizzazione da risolvere, al di là delle competenze giudiziarie.
Nessuno, poi, che alla luce di tutto questo si chieda come mai i nodi qui in Italia, e specialmente al Sud, comunque restano. E nessuno, ancora, che si interroghi sul perché la scelta di uomini come Mancuso ed Emiliano e le candidature simboliche di Roberti e Chinnici non aiutino la sinistra a uscire dal clamoroso paradosso in cui si è cacciata. La sinistra, in quanto storica paladina dell’uguaglianza, dovrebbe riflettere su come mai, in questi anni, con l’aumentare dei divari economici e delle diseguaglianze civili non ci sia stata una sua parallela crescita elettorale. Ma si ostina a non farlo, per ritrovarsi invece in affanno e sotto assedio, con i populisti e i sovranisti alle porte. Una previsione? Entri la Corte! Di questo passo, è così che si dirà un giorno, quando per fare il punto sulla crisi in atto si convocherà d’urgenza la segreteria politica del partito.