Storia dei segretari del PCI /1
L’ing. Bordiga, il limpido ragazzo che fondò il Pci
In occasione dei cento anni dalla nascita del partito comunista italiano avvenuta a Livorno il 21 gennaio, pubblichiamo il ritratto dei sette segretari. Partiamo con Bordiga, poi Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Luigi Longo, Enrico Berlinguer, Alessandro Natta, Achille Occhetto
Su Amadeo Bordiga e Achille Occhetto, il primo e l’ultimo segretario del Pci, l’uomo che più di ogni altro presiedette alla sua nascita e quello che dopo una settantina d’anni ne decretò la morte, pesa un destino singolarmente identico: qualcosa che va oltre l’amnesia collettiva, la rimozione, l’oblio. Quasi una damnatio memoriae che impone di cancellarne il ricordo, negarne il ruolo o almeno ridurlo a una nota a pie’ di pagina. E non solo, l’immagine che di entrambi viene restituita è quasi sempre caricaturale, e a Bordiga spetta la parte ingrata del dirigente rigido e bolso, prigioniero del proprio dogmatismo.
Le cose non stanno proprio così. Amadeo Bordiga, 32 anni quando fondò di fatto il Pcd’I a Livorno nel 1921, anima nel 1912 del Circolo Carlo Marx di Napoli, poi leader all’interno del Psi della “Frazione Intransigente Rivoluzionaria” nel 1917 e dopo la Rivoluzione d’ottobre della “Frazione Comunista Astensionista”, direttore dal 1918 del giornale Il Soviet, non era affatto un miope sprovveduto. Amici e nemici gli riconoscevano una logica ferrea, derivata anche dall’essere uno dei pochi dirigenti della sinistra di formazione scientifica. Come tutti gli uomini del suo tempo era convinto che la scienza fosse sempre esatta. Come molto marxisti della sua epoca riteneva che il marxismo fosse una scienza rigorosa e non un’ideologia o una dottrina. A partire da questi assunti procedeva con logica consequenziale impeccabile.
Nel 1914-15 era stato il più fermo nell’opporsi non solo alle tentazioni interventiste che avevano invece per un po’ sedotto Antonio Gramsci ma anche alla formula ambigua del Psi “Non aderire né sabotare”. Considerava la democrazia parlamentare l’opposto del comunismo e di conseguenza la non partecipazione del partito alle elezioni un elemento cardine. La sua “sua pregiudiziale astensionista” fu uno degli elementi che più ritardarono la nascita del Pcd’I, che vide la luce nel momento peggiore, quando la fase montante del conflitto sociale, il “biennio rosso” già declinava e la controffensiva fascista stava mettendo il Movimento operaio alle corde. Quella pregiudiziale fu oggetto di uno scontro diretto e violento, nel 1920 a Mosca, con Lenin, che nel suo pamphlet L’estremismo malattia infantile del comunismo, prendeva di mira proprio l’italiano.
Una ricostruzione agiografica del conflitto tra i due gruppi alla base del nuovo partito nel biennio precedente Livorno, Il Soviet napoletano e il L’Ordine Nuovo torinese, ha contrapposto a lungo, almeno nella vulgata e nel senso comune, “l’apertura” all società e alla spinta operaia dei torinesi e la “chiusura settaria” dei bordighiani. Bordiga, che nonostante le polemiche sull’astensionismo era e rimase sino alla scomparsa nel 1970 rigorosamente leninista, seguiva una logica diversa ma non più discutibile di quella dei sostenitori dei “consigli operai”. Era convinto che la questione centrale, anzi unica, fosse la conquista del potere politico, rispetto alla quale il nodo del “potere nelle fabbriche” era secondario. Bordiga critica Gramsci perché, a suo parere, il leader del gruppo torinese crede «che il proletariato possa emanciparsi guadagnando terreno nei rapporti economici mentre ancora il capitalismo detiene, con lo Stato, il potere politico». Con il rischio che ciò si risolva «in un puro esperimento riformista con la modificazione di certe funzioni dei sindacati».
Sono i bordighisti a premere per la scissione e la costruzione di un nuovo partito, rifiutando di tentare la strada, che invece proverà a battere senza risultati Gramsci, di un “rinnovamento del Partito socialista”, come recita il titolo delle tesi gramsciane dell’aprile 1920. Ed è ancora la robusta struttura dei bordighisti che rende possibile la scissione al congresso di Livorno del Psi, nel gennaio 1921. La discussione e anche lo scontro fra le due anime del nascituro Pcd’I rivela l’errore e la debolezza intrinseca di entrambe, condivisi peraltro dalla III Internazionale: la convinzione che l’Italia sia, o sia ancora, sull’orlo di un’esplosione rivoluzionaria, che mette pertanto il tema della conquista del potere all’ordine del giorno, e non, invece, un Paese in piena e vincente controffensiva padronale, che obbligherebbe al contrario a considerare la resistenza e sopravvivenza come elementi prioritari nella lista delle urgenze. Ma all’interno di queste coordinate e letta con le lenti dell’epoca, la linea di Bordiga non era affatto un vaneggiamento dottrinario e intransigente.,
Anche a offensiva fascista ormai dilagata, nel 1923, il segretario del Pcd’I non esitò a contrapporsi all’Internazionale, che chiedeva alleanze politiche contro il fascismo. Le “Tesi di Roma” firmate da lui e Umberto Terracini accettavano le alleanze su specifici obiettivi ma non quelle politiche. Né è realistica l’interpretazione, a lungo egemone grazie alla storiografia del Pci, di un cambio della segreteria, da Bordiga e Gramsci, motivato dal conflitto tra la visione più lungimirante del nuovo segretario e quella più settaria del defenestrato. Il Congresso di Lione fu il riflesso fedele dello scontro tra i bolscevichi nell’Urss, che in quel momento passava per la doppia crociata contro Trockji e contro “il frazionismo”. Bordiga, non a caso assimilato dalle stesso Gramsci a Trockji, fu vittima della “boscevizzazione del Pcd’I”, cioè della sua totale omologazione al comando di Mosca.
Si può accusare di tutto il fondatore del Pci ma non di opportunismo o ambiguità. Anche la sua scelta più giustamente criticata, quella a favore delle potenze nazifasciste nella guerra mondiale, era conseguenza diretta del suo modo di ragionare, rigoroso fino alle estreme conseguenze anche quando quelle conseguenze erano inaccettabili e mostravano un totale scollamento con la realtà. Se l’Inghilterra era il cuore del capitalismo mondiale, bisognava augurarsi, pur senza mai prendere parte attiva a fianco dei fascisti, senza scadere nell’antisemitismo e senza mai rinnegare la sua battaglia per il comunismo e contro lo stalinismo, la sconfitta dell’Inghilterra.
Su Bordiga probabilmente ha visto più a fondo di tutti Costanzo Preve, che ne riconosceva i meriti intellettuali ma lo individuava come figura tipica di una robusta vena integralista che era ben presente nel marxismo e che non è affatto periferica né nella cultura comunista e neppure in quella del Pci: una sacralizzazione della triade Marx-Engels-Lenin e di tutto il loro pensiero dal quale deduceva poi tutto il resto. Se nella lunghissima attività pubblicistica dal dopoguerra al 1970 preferiva evitare di far comparire la sua firma era proprio perché si sarebbe trattato da un lato di manifestazione di individualismo “piccolo borghese” ma dall’altro anche di un fatto pleonastico. Bordiga riteneva di sviluppare le conseguenze matematiche di assunti che per lui erano certi e indiscutibili come fondamenti di una scienza esatta. E che senso avrebbe mai firmare un’equazione?
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