La riflessione
Linguaggio, libertà, privato: i progressisti e le idee originali da cui ripartire
La debacle democratica americana è stata descritta come l’epilogo di una prolungata assenza di idee all’interno dell’area progressista. E’ una teoria condivisibile sotto diversi aspetti. Tra Stati Uniti ed Europa sono almeno trent’anni che i “democratici” non introducono temi originali nel dibattito politico, essendosi spesso limitati a spiegare come i competitor fossero poco competenti, poco affidabili o addirittura pericolosi.
Col tempo questo modello ha smesso di funzionare, perché alla gente sempre meno interessano lezioni su credibilità e competenza dei politici, e ancor meno interessa scegliere il cosiddetto meno peggio.
Oggi le persone preferiscono visioni anche radicali, purché vi intravedano il coraggio necessario a tirarle fuori dal pantano percepito del quotidiano.
Il campo minato del politicamente corretto
Ma quali potrebbero essere le idee originali di cui scrivo? La prima che mi viene in mente riguarda il linguaggio. La seconda punta invece a una ridefinizione degli ambiti di pubblico e privato. Si tratta di temi profondamente connessi tra loro. La questione del linguaggio è preliminare a ogni altra, perché contiene le premesse a ogni tipo di attività e produzione intellettuale.
I progressisti hanno trasformato la sfera del linguaggio in un campo minato, in cui giuste istanze che presiedevano all’avvento del politicamente corretto sono via via diventate ossessioni o perversioni culturali, che dall’applicazione al contesto pubblico di protocolli di cosiddetta “compliance lessicale”, si sono estese a quello privato, non solo nel tentativo di educare all’uso di una certa espressione verbale in luogo di altre, ma spesso addirittura puntando a una sostanziale moralizzazione del pensiero, fino a comprimere un’intima e fondamentale dimensione di libertà.
L’efficace provocazione della destra
Di fronte a questo scenario, consolidatosi in qualche decennio e sempre più velocemente nell’ultimo, la destra ha replicato con un’efficace provocazione, sostenendo che ormai “non si può più dire niente”.
Si tratta appunto una forzatura – perché suggerisce l’opzione opposta, quella secondo cui si può dire tutto e in qualunque contesto, come dimostra proprio Trump – ma ha colto bene nel segno, cavalcando la frustrazione di un pezzo di opinione pubblica che si sente culturalmente “prigioniero”.
In risposta a queste opposte divaricazioni esiste, io credo, l’opportunità di una via alternativa, che porti nuovi significati e valori al concetto di libertà e alla sua pratica quotidiana.
Occorre innanzitutto garantire un luogo di espressione protetto, un privato che sia effettivamente tale, in cui la privacy da tutelare non si limiti a dati sensibili o aspetti tecnico-burocratici, ma si estenda più generalmente alle libere opinioni. Ciò significa operare una distinzione del piano del socialmente rilevante – prima ancora che del penalmente rilevante – da tutto il resto. Significa, in altre parole, rinunciare a moralismo e voyeurismo come strumenti di educazione di massa.
Può sembrare un’operazione banale, ma costituisce una sfida imponente, specialmente ai giorni nostri. Essa coinvolge la politica, i media, l’entertainment, e arriva fino al singolo individuo: colui che sente di aver perso significativi spazi di vita, che si percepisce sempre più solo e residuale, ed è quindi maggiormente esposto alle rassicurazioni di un conservatorismo “chiuso”, in cui identificarsi e proteggersi, anche – o soprattutto – attraverso le parole.
Al contempo, definire un’area inviolabile del privato serve a riaffermare la sacralità del contesto pubblico, dove il sacro sta appunto nella coscienza di essere al cospetto di qualcosa di altro e superiore. Ponendo così un argine a rappresentazioni elementari del concetto di “verità” o di “trasparenza”, in nome delle quali tutto diventa accettabile o comunque dicibile, in qualunque ambito o condizione.
Insomma, se il linguaggio segna il perimetro culturale e simbolico dei nostri spazi di espressione, individuali e comuni, ripristinarne un uso coerente ai suoi scopi profondi è il primo passo – io credo – per riappropriarsi della capacità di pensare “a qualcosa” e “a qualcuno” in termini creativi. Dove creativa è proprio la restituzione a una dimensione di libertà “ragionata” e non meramente strumentale.
Pasolini scriveva che per capire i cambiamenti della gente bisognerebbe amarla. Io penso sia sufficiente la giusta consapevolezza della realtà, che consenta di dare il peso adeguato alle cose, e nondimeno agli spazi in cui si manifestano.
La teoria psicanalitica ci consegna l’idea di una istituzione che non reprime la pulsione, ma che al contrario le offre una forma nuova in cui esprimersi. Ed è appunto proprio il linguaggio – secondo Lacan – la prima istituzione con cui l’individuo si confronta.
Non si tratta di una questione tra tante, insomma, ma di un tema che ne contiene e rappresenta molti altri.
© Riproduzione riservata