Le sfide che l’avvento dell’Intelligenza Artificiale porta con sé sono complesse ma al tempo stesso storiche. Ne abbiamo parlato con Valerio D’Angelo, amministratore delegato di Fiven, secondo cui bisogna smontare la narrazione secondo cui l’IA è una minaccia per l’occupazione: «In Italia può creare oltre 900mila nuovi posti di lavoro solamente da qui al 2027». Ma servono due premesse: gli investimenti e il connubio con le competenze umane. Così sarà possibile rendere il lavoro «più efficace, innovativo e significativo».

L’avanzata dell’Intelligenza Artificiale per l’occupazione sarà inevitabile. È una minaccia o un’opportunità?
«L’impatto senza dubbio ci sarà, ma è necessario puntualizzare che l’IA non elimina posizioni lavorative, piuttosto le sostituisce. Richiede cioè all’uomo maggiori e migliori qualifiche, consentendogli di non dover più svolgere i lavori a minor valore aggiunto. Se noi formiamo professionalità adeguate, il potenziale è altissimo».

Quanti posti di lavoro può creare in Italia?
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Considerando che già oggi in Italia mancano all’appello circa 310mila figure in ambito ICT, e che nei prossimi anni questo numero si moltiplicherà, possiamo tranquillamente affermare che solo nel nostro paese l’IA può creare oltre 900mila nuovi posti di lavoro solamente da qui al 2027, per un valore aggiunto sul Pil che sfiora i 100 miliardi di euro».

Siamo davvero pronti per una rivoluzione così impattante e rapida?
«L’impatto è effettivamente enorme e di una rapidità impressionante. Ma l’avvento dell’IA rappresenta una rivoluzione industriale che non deve essere temuta o limitata. Anzi, va cavalcata. Fiven lavora da 10 anni sull’IA: l’impatto in termini di efficienza è sempre stato molto positivo».

Serviranno sempre più competenze. L’IA è in grado di rispondere a questa esigenza?
«Il fattore umano rimane fondamentale. Bisogna investire sul re-skilling della fascia di età dai 30 ai 50, che è forse quella più a rischio, ma anche sulla formazione superiore e universitaria. Ad esempio perché non aggiungiamo negli ITS il settimo filone verticale e specifico sull’IA? E perché non incentiviamo quei percorsi che puntano a coprire le esigenze lavorative che possono aiutare il paese a fare un salto competitivo?

Ma questo comporta investimenti importanti…
«Esatto. L’Europa è indietro in termini di investimenti rispetto a Stati Uniti e Cina. Questo non significa però che dobbiamo pensarci come Cenerentola globale e che l’Italia debba pensare di non poter essere protagonista. Chiaro che per ambire a essere protagonisti è necessario superare il nanismo delle aziende di Information technology italiane».

La strada, insomma, è una sinergia tra IA e competenze umane. Facile a dirsi. E a farsi?
«L’IA è un sistema complesso in cui giocano un ruolo fondamentale anche l’ingegno, le competenze umanistiche, il design, la capacità di guardare alla realtà da una prospettiva diversa. Il futuro del lavoro vivrà di una sinergia tra l’IA e le competenze umane. La collaborazione tra IA e intelligenza umana porta con sé una promessa molto importante: rendere il lavoro più efficace, innovativo e significativo».

È in gioco la competitività internazionale. Come si può raggiungere l’indipendenza per non essere vincolati all’esterno?
«Intanto diciamo che un’IA italiana c’è. Noi e altre aziende sviluppiamo algoritmi in lingua italiana e per le esigenze delle imprese italiane e di tanti gruppi internazionali che operano nel nostro paese. Chiaro che questo tipo di know-how e competenze va incentivato e sostenuto: il pericolo è che, non sviluppando l’AI in Europa e in Italia, poi si generi una sudditanza e una dipendenza verso tecnologie sviluppate dalle Big Tech estere».

Insomma, serve un po’ di sano nazionalismo?
«Sicuramente. Pensi che nel nostro settore buona parte dei fondi del Pnrr sta andando ad aziende che in realtà sono straniere e che generano opportunità di lavoro all’estero o esternalizzano manodopera e sviluppo al di fuori del nostro paese. E spesso i grandi accordi Consip o le aziende di Stato mettono requisiti minimi per partecipare alle gare che le medie aziende italiane non riescono a soddisfare. Se con un po’ di sano nazionalismo si rivedessero quelle regole, forse si potrebbe creare maggior valore in maniera autoliquidante».

È giusto regolamentare, senza però soffocare. Esiste un punto di equilibrio?
«Sul fronte regolamentazione l’Europa e l’Italia hanno sicuramente dato il proprio contributo, mettendo correttamente nel mirino una serie di rischi che sono legati soprattutto all’IA autogenerativa. C’è però tutto un altro mondo legato all’IA deterministica che è fondamentale per rendere più efficienti i processi aziendali, la produzione e aumentare la competitività delle imprese».

L’IA può contribuire a colmare il problema crescente della denatalità?
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Le stime ci dicono che nel 2070 nel nostro paese mancheranno all’appello 5 milioni di lavoratori. Se pensiamo che oggi, con 23 milioni di lavoratori attivi, in Italia mancano già 2 milioni di addetti, l’AI potrebbe essere una delle soluzioni per calmierare questo gap. A patto che il suo sviluppo sia accompagnato da politiche di formazione e incentivazione di determinate professioni che nei prossimi anni diventeranno sempre più richieste e fondamentali».