I funzionari iraniani stanno inviando segnali contrastanti su una potenziale ritorsione contro Israele. All’interno del corpo dei guardiani della rivoluzione dell’apparato del regime teocratico si allargano le crepe tra chi vorrebbe dare una dura risposta a Israele per l’attacco subito il 26 ottobre, minacciando al contempo di accelerare il processo di arricchimento dell’Uranio per dotarsi nel più breve tempo possibile dell’arma nucleare come deterrenza e chi invece spinge per non procedere oltre nel conflitto con Israele perché a loro avviso la Repubblica islamica non reggerebbe a un confronto militare diretto con Israele che avrebbe consegue disastrose sulla tenuta stessa della repubblica che è molto odiata in patria da gran parte della popolazione che oltretutto sta sopportando una crisi economica disastrosa.
Sembra che in questa fase l’Iran non abbia una vera e unica guida e che ogni leader di corrente all’interno dell’apparato della Repubblica islamica si pronunci per sé. E allora da una parte c’è chi come Kamal Kharazi, capo del Consiglio strategico per le relazioni estere che ha riferito domenica che l’Iran ha dichiarato ai paesi arabi della regione che sta pianificando una risposta forte e complessa a Israele e che prevede l’impiego di testate ancora più potenti e di altre armi e c’è invece come il presidente Pezeshkian che cerca di smorzare i toni. L’impressione che si ha è che all’interno dell’amministrazione iraniana vi sia molta confusione sul da farsi e che le crepe già esistenti all’interno del corpo dei guardiani della rivoluzione si stiano allargando con vere e proprie faide, soprattutto dopo la dura risposta di Israele nella notte del 26 ottobre che ha messo in ginocchio l’apparato militare di sicurezza del paese indebolendone fortemente e ulteriormente la sua capacità di deterrenza.
Oltre a cinque soldati iraniani uccisi, le immagini satellitari hanno mostrato con schiacciante evidenza che quella notte Israele aveva colpito siti di test nucleari oltre ai sistemi di difesa aerea distruggendo tutti e quattro i sistemi S-300 e mettendo fuori uso l’ampio sito di Khojir, nei pressi di Teheran, dove vengono prodotti missili balistici. Gli attacchi israeliani hanno paralizzato la produzione missilistica dell’Iran e distrutto una componente critica del programma missilistico balistico iraniano, mettendo in ginocchio la capacità dell’Iran di rinnovare il suo arsenale missilistico dissuadendolo di fatto dalla impossibilità, a breve, di condurre ulteriori attacchi missilistici massicci contro Israele. Ben dodici “miscelatori planetari”, impiegati per produrre combustibile solido per missili balistici a lungo raggio, sono stati distrutti. I miscelatori sono apparecchiature altamente sofisticate che l’Iran non è in grado di produrre e dunque per dotarsene dovrebbe acquistarli dalla Cina. La rigenerazione dei miscelatori, infatti, potrebbe richiedere almeno un anno. In sostanza, sebbene l’Iran disponga ancora di un’ingente riserva di missili balistici, fonti israeliane affermano che il fatto che non sia in grado di produrre nuovi missili balistici limiterà anche la sua capacità di rifornire le scorte di quelli in possesso di Hezbollah e degli Houthi.
Dunque, le dichiarazioni contrastanti tra loro che i decisori della Repubblica islamica stando ufficialmente rilasciando sembrano frutto di confusione e disperazione e, soprattutto, sono rivolte alla corrente cosiddetta dei “principisti” guidata dal leader spirituale Gholam Ali Haddad Adel e dal capo politico Mohammad Bagher Ghalibaf, quella più intransigente e fedele ai princìpi della Rivoluzione khomeinista guidata da che è molto forte nell’Assemblea consultiva islamica e nell’apparato sciita con a capo la guida suprema Khamenei. Anche le recenti dichiarazioni di Kamal Kharazi, capo del Consiglio strategico per le relazioni estere, in merito all’adozione di una dottrina militare basata sul nucleare, appaiono rivolte all’interno per nutrire la corrente più intransigente dell’amministrazione di Teheran e dall’altro è rivolto ai vicini della regione per mostrare un Iran che è pienamente in grado di ripristinare la sua capacità di deterrenza. Non è un caso che il presidente iraniano Pezeshkian nella sua dichiarazione di domenica 3 novembre ha smorzato i toni e ha lasciato la porta aperta alla de-escalation “se Israele mostra di voler cessare le ostilità”. “Se riconsiderano le loro azioni, accettano un cessate il fuoco e fermano l’uccisione di persone innocenti e oppresse nella regione, ciò potrebbe influenzare la natura e l’intensità della nostra risposta”.
Un approccio decisamente più misurato rispetto a quello più vicino alle correnti più oltranziste delle Forze Qods impegnati nella regione. Gli Stati Uniti dall’altro canto hanno direttamente messo in guardia Teheran dal lanciare un nuovo attacco contro Israele, affermando che questa volta non saranno in grado di frenare il loro alleato e in un messaggio diretto alla guida suprema, tramite la Svizzera, l’amministrazione Biden ha avvertito la Repubblica islamica che la risposta di Israele a un possibile attacco iraniano questa volta non sarà così limitata come quella sferrata il 26 ottobre. Intanto Washington ritiene che gli Accordi di Abramo siano fondamentali per la stabilità a lungo termine in Medio Oriente e lavora rafforzare il coordinamento militare tra Israele e i partner arabi per contrastare l’Iran e i suoi alleati.
Anche sul piano politico e diplomatico, oltre che militare, Teheran sta perdendo la sua guerra. Il neoeletto presidente iraniano Masoud Pezeshkian è stato voluto dalla guida suprema Ali Khamenei per lavorare al ripristino del Piano d’azione globale congiunto (JCPOA) per limitare il programma nucleare iraniano in cambio della rimozione delle sanzioni per far uscire l’Iran “dall’isolamento” e dalle sabbie mobile in cui è sprofondata l’economia del paese per questo Teheran guarda col fiato sospeso all’esito delle elezioni presidenziali, un ritorno di Trump alla Casa Bianca allontana queste speranze.