Il rapporto di Amnesty International sul “genocidio” che Israele avrebbe programmato e attuato nei confronti della popolazione palestinese ha fatto scuola. Tra le tante chicche per cui si segnalavano le centinaia di pagine di quell’elaborato primeggiava, per inventiva e disinvoltura, la pretesa che nell’accertamento della commissione di quel crimine non ci si affidi più a questa cosa noiosa e inappagante che è la legge uguale per tutti e che, invece, se ne disegni un perimetro più inclusivo. In buona sostanza, se una certa cosa non è genocidio non c’è problema: la chiamiamo genocidio e il gioco è fatto.

Perché dicevamo che questo originale modo di procedere – che denuncia le angustie definitorie del genocidio, e quindi le allarga quel tanto che serve per farci entrare la guerra di Gaza – ha fatto scuola? Perché qualche giorno dopo il lancio delle fatiche editoriali di Amnesty International arriva il governo della Repubblica d’Irlanda il quale – annunciando l’intenzione di sostenere le accuse sudafricane portate all’Aja contro Israele – spiega che chiederà alla Corte Internazionale di Giustizia di non adottare regole interpretative troppo strette, anzi di “allargarle” perbene affinché, appunto, non si rischi di lasciar fuori ciò che deve essere genocidio per forza, sennò il gioco non riesce. Insomma – secondo un modulo che noi ben conosciamo, ma questa volta in salsa celtica – per evitare che il colpevole precostituito la faccia franca.

Vedremo se l’insegnamento di Amnesty International, che per ora ha indottrinato l’Irlanda, si presterà a ulteriori iniziative di imitazione. Il problema è che mentre Amnesty è una multinazionale del pregiudizio anti-israeliano, libera di lasciarsi andare a certi spropositi di modellazione del diritto e della giustizia in omaggio a quell’orientamento pregiudiziale, uno Stato è, o almeno dovrebbe essere, una cosa diversa. Uno Stato – pur nel prendere la posizione che crede in una faccenda di giustizia, e pur parteggiando smaccatamente per una parte e contro l’altra – dovrebbe astenersi dagli esperimenti in cui si esercita quel carrozzone dei diritti umani, tanto per intendersi quello che aveva a capo – mai ripudiato – uno secondo cui la sopravvivenza di Israele è una faccenda estranea all’orizzonte dei propri interessi.

La considerazione da fare a distanza di un anno dal deposito del ricorso del Sud Africa contro Israele è – se si può osare – questa: che se si propone di riscrivere i criteri in base ai quali si valuta l’esistenza del genocidio, forse significa che il genocidio di cui per 12 mesi si va discutendo come di un fatto plateale e inoppugnabile, bisognoso solo di condanna perché le prove sovrabbondano, puramente e semplicemente non c’è.