Non sono pochi a credere che oggi, nella società del benessere in cui viviamo, ad essere in crisi non è tanto la maternità, quanto la paternità. Quest’ultima, oltre che biologica, si rivela spesso putativa: da San Giuseppe a Mastro Geppetto, gli esempi potrebbero essere innumerevoli. Si tratta di una condizione da conquistare: forse la più grande invenzione della civiltà umana, se pensiamo alla crudeltà dei leoni che, per evitare la concorrenza, non esitano a divorare i loro piccoli.

Sarebbe istruttivo rileggere in questa prospettiva uno dei capolavori della letteratura italiana del Novecento, ripubblicato di recente nelle edizioni Quodlibet: L’isola di Giani Stuparich (pp. 99, 14 euro). Il racconto, ampiamente autobiografico, ambientato a Lussino, in Istria, un tempo parte integrante della nostra nazione, oggi in Croazia, pone al centro la relazione fra il trentenne narratore e il suo genitore ormai in fin di vita dopo che gli è stato diagnosticato un tumore all’esofago. La postfazione, firmata da Giuseppe Sandrini, s’intitola Padre e figlio nell’azzurro dell’Adriatico. Ed è questo, a ben pensare, il fascino del testo: una prosa lirica di taglio antiquariale come oggi non se ne leggono quasi più, fatta di silenzi, evocazioni e descrizioni paesaggistiche, sfumata nei vapori del porto dove approdano i due uomini, ma scolpita alla maniera delle frasi che essi si scambiano. È come se nel loro rapporto affettuoso ma complicato lo scrittore avesse voluto rappresentare il drammatico passaggio da una generazione all’altra, il punto di sutura di una ferita sanguinosa fra chi cresce e chi declina, e tuttavia ineludibile, alla maniera del sole che sorge e tramonta.

A questa breve novella, pubblicata per la prima volta nella rivista “Primato” tra l’ottobre e il dicembre del 1941, stampata quindi l’anno successivo nella prestigiosa collana Einaudi dei “Narratori contemporanei”, è stato affiancato Il ritorno del padre, che era uscito otto anni prima nella rivista “Pègaso”. Un’accoppiata già proposta nel 1959 per un’antologia di racconti curata da Pier Antonio Quarantotti Gambini, il grande autore dell’Onda dell’incrociatore. Anche nel secondo racconto torna la figura di un padre sconosciuto, sebbene ancora giovane, tutto da far proprio per il bambino che è suo figlio ma non l’ha mai potuto dimostrare.  Si tratta di un tema cruciale soprattutto per chi, come me, fa l’educatore. Stare a contatto coi ragazzi orfani, privi del conforto paterno, significa misurare lo squilibrio che quasi sempre si viene a creare tra la forza del desiderio e la sua necessaria contrazione.

Solo il padre può incarnare agli occhi del giovane questo discernimento: se, per una ragione o per l’altra, ciò viene a mancare, l’individuo si sente perso, schiacciato al muro delle scelte che deve giocoforza compiere da solo. Viceversa, il padre che non ottempera a tale compito, o peggio ancora lo diserta fuggendo, rischia di trasformarsi in una persona fragile, alla perpetua ricerca di un equilibrio che non troverà mai. Oggi purtroppo siamo pieni di adulti così, che vogliono restare eternamente giovani, non dal punto di vista anagrafico, ciò sarebbe impossibile, bensì spirituale, incapaci di crescere, quasi volessero mantenere sempre una via di fuga, alle proprie spalle, una garanzia protettiva in grado di cancellare gli errori che potrebbero compiere. A tutto svantaggio dei figli, i quali si trovano di fronte modelli non credibili e scontano su se stessi l’immaturità che i genitori non sono riusciti a superare.

Giani Stuparich illumina con sapienza la trama spirituale degli uni e degli altri, soprattutto nell’istante fondamentale del commiato alla terra natale dell’anziano protagonista rimasto in coperta per salutare Lussino, sorretto dal giovane che lui aveva messo al mondo: «Il figlio vide l’isola impiccolire, svanire all’orizzonte nell’immenso bagliore del mare. Fu quello il primo momento ch’egli ebbe precisa e semplice la coscienza di che cosa perdeva perdendo suo padre».