L’ultimo segnale disperante è la resa del Governo nella lotta al dissesto idrogeologico. La revisione del Pnrr espelle dagli investimenti, tra gli “elementi di debolezza” a rischio di mancati milestone entro il 2026, la voce “riduzione del dissesto idrogeologico” già ampiamente taglieggiata e calata dagli 8.4 miliardi della prima stesura, ai 2,487 della seconda e all’addio agli 1.2 miliardi ancora resistenti e in trasloco su altre voci ritenute più spendibili.

Già, visto che nessuno riesce a mettere su un minimo di struttura tecnica per mettere giù progetti, gare e cantieri – sono in capo al Ministero dell’Ambiente – sfumano opere che salvano vite umane. E sfumano anche i 600 milioni per reti fognarie e i sistemi di depurazione soprattutto al Sud per la mancanza di aziende in grado di realizzarli in un Paese deferito alla Corte di giustizia Ue per circa 2.000 Comuni che sversano scarichi tra fiumi e mare o dove capita, una vergogna europea per la quale stiamo versando all’Ue ben 145 mila euro al giorno per le sole prime 2 sanzioni sulle 4 procedure in corso.

L’ennesima dimostrazione dell’incapacità di far fronte a investimenti in prevenzione strutturale sui fondamentali – case più sicure, territori più difesi, campi agricoli più tutelati – e di pianificare a lungo termine, è figlia della nostra spesa pubblica orientata al giorno per giorno e alla sola riparazione dei danni da catastrofe naturale e pagare sanzioni. Tanti politici ed economisti ritengono fuori dalla nostra portata finanziaria e realizzativa la prevenzione di eventi di cui siamo show room mondiale: terremoti, eruzioni, frane e alluvioni con cicloni e uragani tropicalizzati dal nuovo clima, tempeste di vento e siccità con incendi, mareggiate e erosione costiera. E perciò continuano a rinviarla.

Un alibi molto radicato ma fasullo, che portò anche platealmente il governo Conte 1 a cancellare l’unica struttura di missione istituita dal Governo Renzi e proseguita con il governo Gentiloni allo scopo di impegnare le Stato sul “prima” sempre mancato, e a depotenziare di fatto anche il Dipartimento di Palazzo Chigi “Casa Italia” impegnato nelle difese strutturali. Una convinzione radicata che ha portato i bilanci dello Stato al disastro che abbiamo davanti zavorrati dal costo sempre più stratosferico delle catastrofi che ci vedono indifesi e in balia di ogni evento.

Eppure, anche in una visione biecamente ragionieristica, i geni che scansano l’opera di prevenzione nella logica suicida del tirare a campare, aumentano fragilità, rischi futuri e debito pubblico. Ma riparare e rattoppare lasciando tutto come e peggio di prima, è stata la regola imposta come luogo comune, il mood diventato baricentro della spesa pubblica allergica alle programmazioni della sicurezza massima possibile da un sisma o da una piena, trovando solo nei dopo-catastrofe davanti a morti e macerie una capacità impressionante di spesa a fondo perduto. Giustificando l’impossibilità dell’investimento in prevenzione come il mitico John Belushi nel capolavoro dei Blues Brothers, con una sfilza di cause: austerity, crisi finanziarie, recessioni, congiunture negative, debito pubblico elevato, vincoli europei, Troika, Fiscal Compact, Patto di stabilità, crisi di governo.

Quanto costa l’economia del rattoppo continuo? Mettendo in fila tutti gli stanziamenti dopo ogni evento catastrofale ogni stato di emergenza nella nostra storia repubblicana ha generato flussi di cassa attraverso stanziamenti definiti da elenchi sterminati di leggi e decreti legge e atti ministeriali, delibere regionali e comunali per far fronte a “urgenze inderogabili”, “opere di ripristino”, “assistenza agli sfollati”, “risarcimenti alle attività produttive e turistiche e alle famiglie danneggiate”, “riparazioni” di strade e ferrovie, ponti e viadotti e altre infrastrutture devastate. Un flusso inesauribile di vecchie lire e poi di euro è arrivato nei territori colpiti negli ultimi 80 anni da circa 1500 alluvioni e circa 11.000 frane – oltre 6.000 morti, migliaia di feriti, milioni di sfollati – attraverso tesorerie di Ministeri, Regioni, Province, Comuni, Comunità Montane, dalla Protezione Civile con mutui accesi per somme urgenze, Consorzi di bonifica, aziende di servizi pubblici da quelle idriche a Ferrovie, Anas, Enel, Terna e altre. Dal 2002, si sono aggiunti anche gli aiuti del “Fondo di solidarietà dell’Unione europea” di cui siamo i maggiori beneficiari. È stato utilizzato per 107 catastrofi erogando 8,2 miliardi, con l’Italia maggior beneficiario con oltre 3 miliardi, 2,4 dopo terremoti e 600 milioni dopo alluvioni.

Escludendo a questo flusso finanziario i costi di chi ha dovuto far fronte a bisogni primari con proprie risorse e la solidarietà privata, il denaro pubblico complessivamente speso ammonta alla media annua unica al mondo in relazione alla superficie nazionale e agli abitanti di un paese, di oltre 8 miliardi di euro ogni anno dal 1946 a oggi per un valore di 616 miliardi di euro complessivi, e senza considerare il valore immenso di ogni vita umana perduta. In dettaglio, per i danni da terremoti dal 1946 sono stati spesi dallo Stato 308 miliardi di euro, con l’impatto medio annuale per soli post-terremoti di circa 4 miliardi. Un pozzo senza fondo al quale vanno aggiunti i circa 3,5 miliardi di euro all’anno dopo eventi di dissesto idrogeologico, e altri 500 milioni di euro all’anno per incendi, uragani, mareggiate, eruzioni vulcaniche. I 616 miliardi di euro sono così ripartiti: il 3% per i soccorsi, il 4% per le somme urgenze nei comuni colpiti, l’8% per la ripresa delle attività produttive e l’85% per ripristini e ricostruzioni. Ma i costi sono in crescita esponenziale, considerato che la solo alluvione in Romagna costerà una cifra tra i 7 e i 10 miliardi di euro.

Va poi aggiunta la valutazione biecamente monetaria del periodo medio di malattia per superstiti e feriti, quantificata come un danno di almeno 1,5 miliardi di euro aggiuntivi per ogni anno dal dopoguerra. E la cifra complessiva sale a 728 miliardi di euro! È questo il costo dell’emergenza permanente dell’economia catastrofica, al quale vanno anche aggiunti gli impatti finanziari negativi in settori vitali come turismo e beni culturali e, più in generale, sull’economia dopo ogni calamità, nonché sulla percezione della sicurezza nel nostro Paese. Un esborso senza fine per una sola inderogabile logica, quella emergenziale.

Bankitalia e Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni calcolano una incidenza sul Pil del 2% tra il 1980 e il 2020. È tutto a carico dello Stato, considerata la quasi inesistente copertura assicurativa privata, caso unico in Europa e tra i paesi avanzati. Sui 12.187.698 edifici italiani con 74,3 milioni di immobili di cui oltre 31 milioni sono abitazioni, solo il 52% ha coperture assicurative con polizze anti-incendio dovute in automatico alla stipula di un mutuo, con appena il 4,9% di estensioni contro terremoti o alluvioni nonostante l’esposizione del 75% delle abitazioni. A questi danni si aggiungono poi anche le gelate e le siccità che in agricoltura generano flussi di risarcimenti clamorosi: oltre 20 miliardi spesi dallo Stato per le sole ultime 8 gravi siccità dal Duemila ad oggi su aree territoriali soprattutto del centro-sud – 2000, 2001, 2002, 2003, 2012, 2017, 2019) ma con la peggiore nel biennio 2022-23 partita dal centro-nord. E si scopre che delle 770 mila aziende agricole italiane, quelle tutelate da assicurazioni sono appena 74 mila, nemmeno il 10%. Meno di 400 milioni all’anno dal 1946 per la prevenzione.

Ci hanno sempre raccontato, e continuano a farlo, che adeguare il nostro patrimonio edilizio in zone sismiche 1 e 2, le peggiori, alle norme antisismiche costerebbe talmente tanto da renderla mission impossible. È stato ed è il must di tanti ignoranti. Basterebbe rileggersi il report della struttura di missione “Casa Italia” guidata da Giovanni Azzone rettore del Politecnico di Milano, che nel 2017 calcolava per un vasto piano d’interventi sugli edifici più vulnerabili in muratura un investimento di 36,8 miliardi di euro, con un effetto benefico moltiplicativo sull’economia valutabile in 129 miliardi con oltre 570.000 occupati nell’edilizia. Il conto salirebbe a 46,4 miliardi includendo anche le costruzioni in cemento armato realizzate prima del 1971. E aumenterebbe a 56 miliardi allargando il perimetro all’edilizia realizzata fino al 1981. Lavorando sull’edilizia più a rischio crollo, dov’è più urgente intervenire, si stima un investimento complessivo pari a circa 100 miliardi di euro nell’arco di 20 anni di utilissimi cantieri edili. È la stessa cifra indicata dal Centro Studi del Consiglio Nazionale degli Ingegneri, i cui esperti hanno assunto come parametro la difesa dall’impatto del terremoto dell’Aquila nel 2009. Per mettere in sicurezza statica circa il 40% degli edifici italiani a rischio lesioni o crollo con interventi antisismici, calcolano un costo complessivo di 93 miliardi di euro.

Per il dissesto idrogeologico? Una ordinaria e ordinata pianificazione delle 10.129 opere e interventi di varia tipologia contenute nell’unico piano esistente, quello di “italiasicura” che prende polvere dal 2018 a Palazzo Chigi, prevede l’investimento complessivo di 33 miliardi di euro, calcolato con i parametri finanziari europei per questa tipologia di opere. Non sono cifre impossibili, come i 100 miliardi, i 60 e nemmeno 45 sempre sparate a caso da ministri e presunti esperti. È la cifra che “mangiata” in meno di dieci anni di sole riparazioni.

Non basterebbe a tanti scettici comparare le due uscite, la spesa per le emergenze e l’investimento in prevenzione, per capire che quest’ultimo vale cento volte meno e tutela cento volte di più? Non basterebbe la spesa in corso per le ricostruzioni dei soli tre peggiori disastri sismici degli ultimi 14 anni – i terremoti a L’Aquila nel 2009 costato 17,4 miliardi, in Emilia nel 2012 costato altri 13 e nel Centro Italia nel 2016-2017 che costerà 23,5 miliardi – a farci capire che in soli 14 anni lo Stato che rimborsa tutto, perché da noi non vale il principio di responsabilità amministrativa per i proprietari di case crollate anche se non a norma o con violazioni di obblighi, ha impegnato la bella cifra di 53,4 miliardi. È più della metà del costo di un serio piano di prevenzione antisismica per tutta l’edilizia a rischio, l’investimento più utile e assolutamente alla nostra portata.

Anche chi è digiuno di matematica intuisce qual è l’investimento buono e qual è la spesa cattiva. Tanto più che la prevenzione non va considerata come un costo a carico del debito pubblico, ma è una misura infrastrutturale e quindi un investimento per la crescita ad altissimo valore aggiunto, anche per gli effetti positivi sull’occupazione. Al contrario, è stata la mancata prevenzione il vero salasso per la finanza pubblica.

Erasmo D’Angelis e Mauro Grassi

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