Molte “voci“ che si alzano dal Sud lamentano con crescente allarme la sottrazione di risorse a vantaggio del Nord. Tra queste ci sono le voci di chi non si accorge di muoversi in sostanziale sintonia con quanti in Europa fanno la stessa cosa, cioè difendono aspettative e interessi particolari, maturati prima dell’emergenza sanitaria, e agitati senza riguardi per la mutata situazione post-Covid. Solo che le voci del Sud ci appaiono giustificate dalla criticità del contesto sociale, e dunque legittime; mentre le altre risultano a noi odiose, perché cariche di irresponsabile egoismo. Eppure, se in nome della solidarietà censuriamo le spinte nazionali che tendono a insabbiare gli obiettivi comunitari, non possiamo poi, asimmetricamente, assecondare tutte le rivendicazioni che hanno origini localistiche e si alimentano di risentimenti e frustrazioni risalenti nel tempo. Bisogna dunque valutare, distinguere, e non farsi prendere dal manicheismo populista o dal riduzionismo demagogico.

Del tipo: è tutta colpa di Orban e di Salvini, per intenderci. Tanto più che fino a ieri davamo per scontato che i “cattivi” fossero esclusivamente i paesi dell’Europa dell’Est, in particolare quelli del gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia). Mentre oggi il quadro è molto cambiato: nell’ambito del negoziato sul Recovery Fund, dall’Est arriva all’Italia un imprevisto sostegno, e la minaccia più seria viene invece dal Nord, dai cosiddetti “Stati frugali” (Paesi Bassi, Austria, Danimarca, Svezia e Finlandia). Chi avrebbe potuto immaginarlo solo qualche mese fa? Non a caso, su Repubblica, Ezio Mauro ieri ha scritto – ed è una novità significativa – che «sta emergendo un nuovissimo nazionalismo non sovranista». È la riprova che le cose si stanno complicando e che prendersela con Salvini e Orban può rivelarsi una debole manovra diversiva. In questa situazione, specialmente se ci caliamo dentro i confini nazionali, la posizione più imbarazzante diventa quella di chi vuole furbescamente ricoprire tutte le parti in commedia; di chi prova a stare con i buoni e con i cattivi contemporaneamente; di chi a parole difende le ragioni del Sud e polemizza con “quelli del Nord”, ma sotto sotto fa in realtà l’esatto contrario.

Si scopre così che nell’ultimo provvedimento sulla semplificazione, il cui valore è stato più volte sottolineato dal governo e dalla maggioranza giallorossa, al comma b dell’articolo 47 si stabilisce che le risorse del fondo Sviluppo e Coesione – come è noto in gran parte destinati al Sud – sono ora a disposizione di “programmi nazionali”. Una svolta che implica una scelta precisa: in nome dell’emergenza e della semplificazione, i fondi vanno dove si possono spendere subito, senza alcun riguardo per la collocazione geografica dei progetti. L’esatto opposto, insomma, di quel principio, ribadito anche nel piano per il Sud del ministro Provenzano, secondo cui lo Stato è impegnato a destinare il 34% degli investimenti pubblici alle Regioni meridionali. Le due cose non si tengono, questo è evidente. Ma è così che si procede in questa Italia dell’equivoco elevato a valore strategico. Il colmo, poi, è dato da un Nord che ciò nonostante non si ritiene soddisfatto. E che ancora l’altro giorno, per bocca di Elisabetta Gualmini, europarlamentare Pd, docente di Scienze economiche e vice di Bonaccini, il governatore dell’Emilia Romagna, ha tuonato contro «la sfumatura assistenzialista, a trazione meridionale, del governo».