L'editoriale
L’Italia in quarantena e i programmi in tv dove regna la litigiosità
Durante la quarantena gli ascolti televisivi sono aumentati sensibilmente: per la maggioranza degli italiani tappati in casa, la tivù è rimasta la sola fonte di spettacolo e di svago (a parte i maniaci del web e i ragazzi ipnotizzati dalla playstation). Naturalmente conta anche il bisogno di informarsi sullo stato dell’epidemia e sui decreti governativi, infatti tutti i telegiornali hanno registrato un incremento; ma per gli anziani con un grado medio o basso di istruzione, a farla da padrone sono le soap e i vecchi film.
L’aumento degli ascolti dovrebbe portare a un maggiore introito pubblicitario, se non fosse che le aziende chiuse o in crisi non hanno soldi da investire in pubblicità; l’auspicio di Urbano Cairo nel suo discusso discorsetto motivazionale ai venditori si è rivelato vero a metà – gli spazi pubblicitari sono occupati dalle pubblicità progresso degli enti pubblici, e molte aziende hanno orientato i loro spot (vedi quello della Toyota) verso l’incitamento a non mollare, senza nemmeno mostrare o nominare il prodotto. Si esalta l’Italia, si corre per mano verso il mare futuro, si omaggiano i nonni (vedi lo spot della pasta Rummo). È difficile distinguere i messaggi delle aziende da quelli dello Stato, ma soprattutto è difficile distinguerli dai messaggi che arrivano attraverso i talk pomeridiani o domenicali di maggiore ascolto. Siamo forti, ce la faremo, sapremo correggere le storture verificate finora, la tragedia può diventare un’opportunità.
Questo sembra confliggere con un serpentello che da un paio di settimane si è insinuato nei programmi di approfondimento serale: quello della polemica a ogni costo, la ripresa dell’urlio e della contrapposizione partitica. Il ritornello “questo non è il momento delle polemiche, però…” sta lentamente trasformandosi nel consueto agone para-elettorale, con richieste di commissariamento e sfiducie minacciate, ricorsi al Capo dello Stato eccetera. La televisione, come al solito, è specchio del Paese: dopo settimane di canti dai balconi e bandiere alle finestre, nell’animo degli italiani sembra sia subentrata una gran voglia di attaccare briga. Con chiunque: col disgraziato che prova a prendere il sole su una spiaggia deserta, coi ragazzi di sotto che si bevono una birra insieme, col vecchietto egoista che vorrebbe vedere tutto sbarrato, coi tedeschi che hanno le fabbriche aperte e si ostinano a morire pochissimo.
Le Procure si stanno intasando di migliaia di denunce e di ricorsi contro multe ritenute ingiuste. I nervi di tutti sono a fior di pelle, l’unico dato materiale che impedisce in televisione gli scontri più pirotecnici è il distanziamento: difficile darsi sulla voce, o minacciare le vie di fatto, quando in studio ci sono solo due poltrone e gli altri litiganti sono collegati via skype, con il sonoro che va e viene. La verità è che, dopo due mesi, la pandemia rivela i tre principali vizi italici: la litigiosità, la retorica e il sentimentalismo – che coprono col loro rumore l’efficienza e il senso dello Stato.
Si stanno aprendo strani cortocircuiti: i medici e gli infermieri eroi sono contrapposti alle inchieste sulla malasanità, ma qualche operatrice a un centro per anziani, forse, avrà lasciato che un ospite andasse dove non doveva. Sarebbe interessante sapere, tra i vecchi abbandonati, quanti erano regolarmente visitati dai parenti. Ci sarebbe bisogno di narrazioni realistiche, non di polarità stereotipe. Così come i palinsesti televisivi oscillano a pendolo tra il diluvio di ore dedicate alla pandemia (o ai suoi riflessi) e i programmi di pura evasione. La serietà non-Covid non ha udienza, e sono lodevoli eccezioni (Zoro, Cattelan) quelli che riescono a parlare di cose serie divertendo. Alcuni ex programmi di trash e cazzeggio, come il Grande Fratello Vip o Non è la D’Urso, si sono trasformati in prediche paternalistiche, o maternalistiche, a dominante sentimentale e religiosa.
Con esiti spesso imbarazzanti, dalla retorica all’esagerazione non c’è che un passo: nell’ansia di dare il buon esempio, persone che si sono abbracciate e urlate sulla faccia fino a un attimo prima sono invitate a non tenersi più per mano appena varcata la soglia della Casa del GF, come se il contagio fosse nell’aria stessa dell’esterno. In una diretta su Rai1 si parla del “crocefisso che fece cessare la peste del 1348”, così, senza un briciolo di scettica riserva. Sono spariti come per incanto i blocchi di trasmissione scollacciati che andavano in onda dopo la mezzanotte, con ostensione di seni e glutei; ed è un peccato, perché mai come ora le teste degli italiani sono state piene di sesso, data la repressione forzata (le connessioni ai siti porno sono anch’esse aumentate del 25%).
Visto che la scienza, com’è ovvio, non sa offrire certezze ma solo dubbi da superare studiando, e data la confusione ai limiti del ridicolo delle misure governative (la crostata alle albicocche comprata dal panettiere è lecita, mentre quella alle visciole la si chiede al pasticciere sottobanco), in questo vuoto incerto la massima autorità della Nazione sembra essere diventata il Papa; che certo dice cose sagge, ed è uomo ammirevole e coraggioso. Ma perché aspettare che sia lui a dire “credevamo di essere sani in un mondo malato”, e meravigliarsene come di un’affermazione inedita? Dove sono finite le cento e cento pagine degli intellettuali laici contro la società dello spettacolo, la perdita della realtà, il denaro come unico criterio di valore, la folla solitaria, l’adorazione di finanza e tecnologia?
Possibile che la cultura laica non sappia trovare le parole per compatire e rassicurare? La serietà illuministica esiste, è ancora viva e capace di ironia; l’attenzione per le ricadute pratiche della ragione, per la salute pubblica e i prezzi delle granaglie, per le statistiche e le loro applicazioni sociali – tutto questo non può essere affidato solo alla politica “politicienne” e ai virologi (che pure saranno tentati da un’inconscia e umanissima resistenza a perdere il protagonismo che in questo momento detengono).
L’illuminismo lombardo, e napoletano, è stato un gran bel momento della nostra storia nazionale; ha innervato di concretezza i pregi italici (la solidarietà spontanea, la fantasia, la gioia di vivere). Si può parlare anche di questo in televisione? Si può concedere uno spazio nei palinsesti a sociologi, storici, antropologi, economisti, senza che vengano subito sommersi dal sottosegretario urlante o dalle lacrime di una figlia straziata? Si può insomma trovare, anche sul piccolo schermo, un angoletto di calma?
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