Charles De Gaulle diceva che l’Italia non è un paese povero, ma un povero paese. Un povero paese guidato da un governo sull’orlo di una crisi di nervi, tra dossieraggi a strascico, chat velenose, provvedimenti annunciati e immediatamente smentiti per l’opposizione veemente delle categorie colpite: monopoli, numeri chiusi, condoni, carriere assicurate, indennità speciali, proroghe ed esenzioni, ope legis, gilde sindacali, ordini professionali e corporazioni di ogni tipo. Formano un esercito folto e agguerrito, che spesso riesce ad averla vinta aizzando un particolarismo spietato e saccheggiando le casse pubbliche. È contro questa muraglia che si infrange qualsiasi vento riformatore. Lo schieramento anti-meritocratico e anti-concorrenziale, ben rappresentato nella maggioranza parlamentare, riesce così a neutralizzare la sfera della politica, imponendo in cambio del proprio consenso la sua impotenza.

Per altro verso, l’Italia non è un paese povero, come recita la vulgata di moda a sinistra. Perché non è povero un paese che è al primo posto in Europa per possesso di abitazioni, autoveicoli, cellulari. Al secondo per animali da compagnia. Un paese in cui il giro di affari legato al gioco d’azzardo – legale e illegale – sfiora la cifra incassata dall’imposta sul reddito. Un paese che, per conoscere il futuro da maghi e fattucchiere, spende più di quanto viene accantonato annualmente per i fondi pensione. Un paese in cui sono più di otto milioni i pensionati assistiti totalmente o parzialmente dalla fiscalità generale, tre milioni le persone che godevano del reddito di cittadinanza e altri tre milioni che beneficiavano degli ammortizzatori sociali: moltiplicati per il numero medio di persone a carico, erano circa 20 milioni di cittadini che – in un modo o nell’altro – venivano assistiti dallo Stato.

Non basta. Più della metà dei contribuenti versa un’imposta sul reddito pari a pochi spiccioli. Ma il costo per assicurare a questa metà il diritto alla salute, alla scuola e all’assistenza è 12 volte superiore. Differenza colmata dai contribuenti con redditi superiori ai 35mila euro e che, da soli, versano quasi il 60% dell’Irpef. Infine, è vero che il numero delle persone in povertà assoluta negli ultimi tre lustri è raddoppiato. Senza però dimenticare che gran parte della povertà economica deriva dalla povertà educativa e sociale di cui soffrono quasi 10 milioni di italiani, molti dei quali affetti da dipendenza da alcol, droghe, ludopatie o da altri problemi alimentari come anoressia e bulimia. Una dura realtà in cui andrebbe incluso anche chi viene a trovarsi in situazioni di improvvisa difficoltà in seguito a precoci separazioni o divorzi.

Benché, dunque, il numero dei poveri sia in salita, non siamo un paese povero. Siamo però un paese che ha un’evasione fiscale e un’economia sommersa stratosferiche, e che tra quelli dell’area Ocse vanta il triste primato (dopo la Turchia) del più alto indice di analfabetismo funzionale, mentre è in coda alla classifica per dinamica della produttività e per investimenti nella ricerca.

La famigerata questione sociale quindi non riguarda solo il tasso di disuguaglianza, chi ha una bassa retribuzione, un impiego precario ed è escluso o staziona ai margini della “città del lavoro”. Essa chiama in causa l’assetto complessivo del nostro welfare. Anche perché le protezioni sociali dipendono, in una misura che non ha confronto con i diritti civili e politici, dalle risorse create dal mercato. Sfidati dai cambiamenti demografici, della famiglia e del lavoro, i sistemi di welfare sono sulla graticola dei governi da quando non è stato più possibile pagarli aumentando le tasse. Sono stati finanziati indebitandosi. E il debito, prima o poi, occorre restituirlo.

Dal canto suo – invece di affrontare seriamente queste sfide – l’opposizione riesce a trovare uno straccio di unità solo quando parla di salario minimo, riduzione dell’orario di lavoro a parità di stipendio, abolizione del Jobs Act, più soldi alla sanità (che ci vogliono, ma non bastano con l’attuale efficienza della spesa). Un po’ poco, mi sembra. E non sempre il poco è meglio del niente.