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Uno strumento che non sappiamo maneggiare
L’Italia non sa usare l’Intelligenza Artificiale, altro che transizione digitale: è 16esima in classifica in Europa
Rispetto alla concorrenza, le nostre imprese sono sottodimensionate. Le Pmi contribuiscono ancora al Pil per circa il 41-45%. Contro il 37% e il 39% rispettivamente di Francia e Spagna. In questo, solo la Germania ci fa concorrenza
L’intelligenza artificiale è uno strumento irrinunciabile per le imprese. La transizione digitale è un percorso che un’economia come l’Italia non può non affrontare. Le nuove tecnologie sono un booster di competitività. Facendo un mea culpa, i giornali sono pieni di cliché di questo genere. Purtroppo però sono sempre di più le indagini che smentiscono questo sensazionalismo ottimistico. L’ultima sferzata di realtà ci arriva dal rapporto dell’Osservatorio di 4.Manager “Intelligenza Artificiale. Cambiamento culturale e organizzativo per imprese e manager: nuove traiettorie della managerialità”, che indica l’Italia come sedicesima in Europa per l’uso di tecnologie Ai nelle imprese, con un valore sotto la media Ue dell’8%. E non basta che gli investimenti nelle nuove tecnologie siano aumentati del 30% in un anno, visto che l’assenza di competenze (skill gap ) resta del 55% sull’intero panorama imprenditoriale nazionale.
C’è un handicap strutturale che spiega tutto questo. Rispetto alla concorrenza europea, le imprese italiane continuano a essere sottodimensionate. Le Pmi contribuiscono ancora al Pil per circa il 41-45%. Contro il 37% e il 39% rispettivamente di Francia e Spagna. In questo, solo la Germania ci fa concorrenza. Tuttavia, pur rappresentando il 55% del valore aggiunto nazionale, le Pmi tedesche sono meno prevalenti in termini assoluti. Essere una piccola imprese vuol dire non disporre, nella maggior parte dei casi, di un management sensibile alle grandi trasformazioni in corso. Il report fa notare appunto che solo lo 0,5% degli annunci di lavoro totali, pubblicati nel 2023, richiedeva almeno una competenza Ai. Percentuale praticamente identica allo 0,6% registrato nel 2019.
Le aziende né cercano canditati con digital skill adeguate, né investono adeguatamente nell’aggiornamento professionale del proprio staff. «L’investimento in formazione resta insufficiente rispetto alla portata della trasformazione in atto», afferma Stefano Cuzzilla, Presidente di 4.Manager e Federmanager. «Le figure manageriali sono riconosciute come cruciali per gestire la nuova complessità, ma nell’ultimo anno meno della metà dei dirigenti ha avuto accesso a corsi di aggiornamento su questi temi». Del resto così come c’è un problema di offerta di formazione, altrettanto ne abbiamo uno di domanda. L’Osservatorio sulla formazione continua (Ofc), di Edflex Italia, azienda tecnologica specializzata nella formazione aziendale, rivela che a prevalere tra i lavoratori mossi da spontaneo interesse ad aggiornarsi (selflearner) prevalgono ancora i corsi sulle competenze di base: Excel, inglese e Microsoft Teams.
In pratica, mentre c’è un mercato che introduce esoscheletri negli stabilimenti e chatbot sempre più avanzate per efficientare il lavoro d’ufficio, anche chi è ambizioso e curioso parte comunque da una palese condizione di analfabetismo digitale. Su questo né le imprese né le istituzioni sembrano veramente impegnate a invertire la rotta. «Pur essendo riconosciuta come strategica, la formazione professionale viene ancora considerata come un benefit, da fruire nel weekend, in momenti di pausa, invece che rappresentare un elemento critico per il business», dice Davide Conforti dell’Ofc. «Gli orari di picco dedicati dalle persone all’education sono tra le 7 e le 15, con una massima incidenza tra le 13 e le 14. In pratica, quando si percorre il tragitto casa-lavoro, oppure durante la pausa pranzo». Al contrario, l’aggiornamento professionale dovrebbe rientrare nelle attività da compiersi in orario di ufficio.
Altrettanto in deficit sono le politiche pubbliche. La terza edizione del Fondo nuove competenze, che sarà varata a novembre dopo troppi mesi di gestazione, presenta le stesse criticità che hanno condizionato quelle precedenti. Linee guida pubblicate in ritardo, poca chiarezza nell’elenco dei settori sostenuti e ruolo quanto meno incomprensibile delle Regioni. Nel frattempo, Francia e Germania già nel 2018 si erano rese conto della necessità di fare politica industriale ponendo l’AI al centro delle misure di formazione degli educatori e puntando su un rapporto più stretto tra mondo scolastico-accademico e imprese.
In Francia, il Compte Personnel de Formation (Cpf) permette ai lavoratori di accumulare crediti per finanziare la propria formazione durante tutto l’arco della vita professionale. In Germania, il sistema duale e i piani di formazione fortemente integrati con le industrie locali garantiscono una perfetta aderenza tra domanda e offerta di competenze. Al contrario, l’Italia non riconosce nell’AI il valido strumento per interpretare dei dati prodotti dal suo sistema produttivo. Dalle imprese infatti non escono soltanto manufatti, ma anche le relative informazioni e trend. Per questo lavoro servono professionisti, intelligenze umane che, al netto dei luoghi comuni, non sappiamo creare.
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