Flessibilità e smart working
L’Italia riparte dalla riforma della PA: il piano Brunetta-Draghi approvato anche dai sindacati
L’Italia post pandemia riparte dalla Pubblica amministrazione, da un nuovo modo di lavorare, produrre e interagire con il privato, sia il cittadino che l’impresa, che non a caso è una delle due riforme che il Recovery plan europeo pretende dal Piano nazionale ripartenza e resilienza (Pnrr) italiano. Si tratta di una scelta obbligata. Gli ultimi dati disponibili documentano che la burocrazia ha un costo pari a circa 30 miliardi di euro l’anno per le imprese. Non tutti saranno conseguenza di una pubblica amministrazione elefantiaca, farraginosa, poco collaborativa, tendente più a complicare che a semplificare. Non c’è dubbio però che la Pubblica amministrazione italiana sia, con il sistema giustizia, tra i motivi che maggiormente tengono lontani gli investimenti dall’Italia. Se è un punto di ripartenza quasi obbligatorio, non era però scontato che fosse proprio questo il primo atto che il governo Draghi avrebbe messo sul tavolo al di fuori delle misure che riguardano l’emergenza sanitaria.
Parliamoci chiaro: al momento non si va oltre la dichiarazione d’intenti, i target, gli obiettivi, le buone intenzioni e tutte quelle belle parole che si usano quando si fa una bella presentazione di marketing. Però la scelta del ministro Renato Brunetta sul luogo – solenne come la sala Verde di palazzo Chigi – e sugli interlocutori – la presenza dei segretari generali di Cgil, Cisl e Uil – e la presenza per di più parlante del premier Draghi, attribuiscono alla cerimonia quel “cambio di passo” di cui gli osservatori sono in cerca per argomentare l’efficacia o meno dell’esecutivo.
Dunque ieri mattina nella sostanza è stato firmato il “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale”. In calce alle otto pagine le firme di Draghi, Brunetta, Luigi Sbarra (Cisl), Maurizio Landini (Cgil) e Pierpaolo Bombardieri. Tutti, va detto, con un pizzico di emozione nella voce. Tranne Draghi che parlando a braccio, ringraziando Brunetta perché «il buon funzionamento del settore pubblico è al centro del buon funzionamento della società, se non funziona il primo, non va neppure la seconda e la società diventa più fragile e più ingiusta», ha subito ricordato che «il Patto è un evento di grande importanza per il metodo e il contenuto, ma è solo il primo passo. Molto, se non quasi tutto, resta da fare».
Il patto ha alcuni obiettivi: semplificazione, investimento nel capitale umano, innovazione, digitalizzazione, formazione, rinnovo dei contratti, coesione sociale e creazione di buona occupazione. Precise parole d’ordine segneranno il metodo per raggiungere questi obiettivi: “dialogo” e “progettazione unitaria”. Della serie che molte cose dovranno cambiare nella Pa, nell’ambito di una determinata cornice, ma una volta deciso non sarà possibile tirarsi indietro o boicottare. Un po’ come successe nel 1993 quando Ciampi allora premier e il ministro del Lavoro Gino Giugni siglarono il “Protocollo per la politica dei redditi e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo”, un accordo storico con i sindacati e le associazioni imprenditoriali che pose fine ad anni di conflitti. Concertazione delle parti sociali e due livelli di contrattazione (nazionale e integrativo) le novità di quel metodo. Che sono state anche le ultime.
Il Patto si concentra su quattro obiettivi. La Pubblica amministrazione ha «il ruolo centrale di motore di sviluppo ed è un catalizzatore della ripresa». Ecco perché «la semplificazione dei processi» e un «massiccio investimento in capitale umano» sono strumenti indispensabili «per attenuare le disparità storiche del Paese, curare le ferite della pandemia e offrire risposte ai cittadini». Il secondo obiettivo consiste «nell’innovazione del settore pubblico» grazie alla «partecipazione attiva dei lavoratori» e agli «investimenti nella digitalizzazione». Il tutto grazie a «una nuova stagione di relazioni sindacali». Per cui, tanto per cominciare, sono previsti 107 euro di aumento medio per i 3 milioni e duecentomila lavoratori della Pa. E grazie alla «valorizzazione del personale pubblico in servizio attraverso il diritto-dovere di ciascun dipendente alla formazione».
Il Patto stabilisce anche come raggiungere questi obiettivi: nei prossimi contratti nazionali sarà «definita una disciplina normativa ed economica del lavoro agile che supera l’attuale assetto emergenziale garantendo condizioni di lavoro trasparenti». Ok quindi allo smartworking ma con regole precise e sistemi di controllo. Saranno definite anche «nuove professionalità e competenze» attraverso la rivisitazione degli ordini professionali e degli inquadramenti. E poi «politiche formative di ampio respiro» con specifiche competenze informatiche e digitali. E nuovi “istituti di welfare” ad esempio per il sostegno alla genitorialità, agevolazioni fiscali «per la previdenza complementare e i sistemi di premialità». Diritti già riconosciuti nel sistema privato.
Questa la cornice di quella che si annuncia e che dovrà essere una rivoluzione visto che, citando il ministro Brunetta, «il Paese deve ripartire dalle donne e dagli uomini della Pubblica amministrazione che è il motore della Ripresa». Coesione sociale, dialogo con i sindacati, responsabilizzazione, formazione, più flessibilità. I fatti arriveranno a breve con un decreto visto che, come ha spiegato il ministro in audizione l’altro giorno in Parlamento, «non abbiamo il tempo di fare la riforma che vorremmo». Il Recovery detta tempi e contenuti. In linea con gli standard dell’Unione europea. Con Brunetta al ministero si è insediata una vera task force coordinata dal Capo di gabinetto, Marcella Panucci, ne fanno parte tra gli altri il direttore del Censis Giorgio De Rita, il presidente di Aran Antonio Naddeo e Carlo Cottarelli.
A fine cerimonia il premier Draghi ha preso la parola (la quarta volta che parla in pubblico da quando ha giurato) per sottolineare la «centralità del settore pubblico» e ricordare che proprio per questo «c’è molto da fare». Lo dicono i numeri: l’età media dei dipendenti pubblici oggi è 51 anni, vent’anni fa era 43; per la formazione vengono investiti 48 euro e un giorno ogni anno. Ora, la centralità del settore pubblico e il Pnrr richiedono «nuove professionalità, investimenti e nuove forme di lavoro». Il cammino è lungo. La strada segnata. Ci sono le risorse. Chi fallisce, questa volta, non potrà avere alibi.
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