«L’assalto ai sottosegretariati? Nulla di nuovo sotto il sole. Ricordo quella volta che Francesco Cossiga, impegnato nella composizione della squadra di sottosegretari del suo Governo, ai giornalisti che gli chiedevano lumi, rispose: “I muri di Villa Madama grondano ancora per gli schizzi di sangue’”». L’intervista al senatore Luigi Zanda, dal marzo 2013 al marzo 2018 presidente del Gruppo del Partito democratico al Senato, si nutre dell’esperienza e della saggezza di chi nella sua lunga vita politica di cose ne ha viste e vissute tante.

Senatore Zanda, è stato detto e scritto che l’essersi affidati ad un “tecnico”, pur di valore assoluto e autorevolezza internazionale, come Mario Draghi, rappresenti una sorta di “morte della politica” o comunque del sistema dei partiti. È un’analisi impietosa o c’è del vero?
Se per “tecnico” vogliamo intendere un grande economista, un banchiere, un esperto di politica economica, effettivamente Mario Draghi è un tecnico. Ma se vogliamo dirla in modo completo, Draghi è un grande esperto di politica, e direi anche di grande politica. Da Governatore della Banca d’Italia, così come da Presidente della Bce, o anche soltanto da Direttore generale del Tesoro, ha affrontato e risolto questioni spinose e cruciali da vero uomo di Stato. Non si può dunque sostenere che Mario Draghi non sia un uomo politico. Diciamo invece che sotto il profilo politico l’incarico è stato un incarico di necessità, dovuto alle condizioni del Parlamento, dove non c’erano altre maggioranze possibili se non cambiando formula politica e cambiando il presidente del Consiglio. Siamo fortunati, perché avevamo Draghi e siamo stati doppiamente fortunati perché Draghi ha accettato la decisione del Presidente Mattarella.

Guardando ad un orizzonte politico un po’ più lontano, il Partito democratico, per bocca del suo segretario Nicola Zingaretti, ha rilanciato come scelta strategica l’alleanza Pd-5 Stelle- LeU. In una intervista a questo giornale, Mario Tronti ha ribattuto: «La piccola coalizione che si vuol mettere in campo non basta a sconfiggere la destra. Gli elettorati dem e 5s non sono componibili, c’è un’incompatibilità di fondo sull’idea stessa di politica. Bisogna andare per la propria strada, fuori c’è un mondo da attraversare e organizzare. Ora che non ha più l’assillo di tenere in piedi un governo, il Pd deve pensare a se stesso». Come la pensa in merito?
Io penso che Pd e 5Stelle sono partiti molto diversi. Che si sono trovati ad essere alleati in un momento molto difficile per contrastare la richiesta di pieni poteri da parte di Salvini. In un anno e mezzo di Governo, le cose sono molto cambiate, i 5Stelle sono diventati europeisti, ed erano contro l’Europa, sono diventati filo-euro, ed erano contro l’euro. Hanno in parte anche rinnegato pezzi importanti dei decreti sull’immigrazione che pure avevano approvato nel governo Conte I. Prendendo atto di questi cambiamenti, però dobbiamo anche dire che la distanza tra Pd e 5Stelle resta ampia, per cui a me sembra che resti un’alleanza per ora ancora tattica. E lo dico senza dare nessuna accezione negativa a questa espressione, perché in tutte le coalizioni c’è una quota rilevante di tattica politica, che mette forze diverse insieme per governare il Paese.

Con la Direzione di giovedì, il Pd di fatto sembra avere avviato la sua fase congressuale. Non avverte il rischio di un Congresso resa dei conti tra le varie anime, più o meno definite e organizzate, del partito?
L’apertura della fase congressuale ci sarà quando il Congresso verrà indetto. Dobbiamo aspettare che il livello epidemico del Covid decresca in modo tale da consentire un Congresso in presenza: online non sarebbe un Congresso. Anche le riunioni della nostra Direzione, che si tengono a distanza, non hanno la stessa capacità partecipativa delle riunioni fatte in presenza. Questa è una fase che non chiamerei precongressuale ma di dibattito, resa necessaria dagli enormi cambiamenti che sono intervenuti negli ultimi due anni: cambiamenti nelle maggioranze, cambiamenti nel Governo, cambiamenti in relazioni ai fatti giganteschi che stanno trasformando radicalmente la condizione dell’Italia, la pandemia, la crisi economica, la crisi sociale, il mancato aggiornamento delle istituzioni. Noi dobbiamo lavorare perché il Congresso sia un Congresso sulle idee, sul pensiero, un Congresso che possa definire bene l’identità del partito, la sua linea politica. Il tema delle alleanze o la conta sui nomi deve venire dopo.

Vorrei tornare sul governo Draghi. Al ministero dell’Interno c’è un prefetto (Luciana Lamorgese) e per il delicato incarico di sottosegretario ai servizi segreti e alla sicurezza, il presidente Draghi ha scelto il capo della Polizia, Franco Gabrielli. Suo padre, Efisio Zanda Loy, dal 1973 al 1975 è stato capo della Polizia, e lei stesso è stato stretto collaboratore di una personalità che quel mondo lo conosceva molto bene: Francesco Cossiga. Le chiedo: quando i tempi si fanno duri, sono i poliziotti a “salvarci”?
Intanto diciamo che mio padre non c’entra niente con le vicende di oggi e mi sembra peraltro che la vicenda di Gabrielli e quella di Lamorgese siano molto diverse. Gabrielli va ad occupare una poltrona di cui è titolare il presidente del Consiglio e che per legge può delegarla a sua discrezione. Ha scelto un grande esperto, forse il più grande esperto di sicurezza che oggi ha l’Italia, è una scelta molto intelligente che io condivido. Questo per quanto riguarda Gabrielli. Lamorgese è stata prefetto di Milano, è stata al governo al Viminale, e il giudizio sul suo operato è buono per varie ragioni, non ultima che ha occupato una poltrona molto insidiosa. Perché prima di lei lì c’era Matteo Salvini e prendere l’eredità da Salvini è un fardello alquanto pesante e lei l’ha saputo fare con grande responsabilità.

Si sono usate varie definizioni per il Governo appena nato: un Governo di “alto profilo”, il Governo dei “migliori” e via incensando. Poi però c’è stata la vicenda, non certo edificante, dell’assalto dei partiti ai sottosegretariati. La politica non ha dato anche in questo frangente una pessima immagine di sé?
Vede, sono più di quarant’anni che sento questa descrizione della scelta dei sottosegretari. Le racconto questa: nel 1979, Francesco Cossiga per scegliere i sottosegretari del suo Governo, convocò una riunione dei leader politici a Villa Madama affinché la riunione potesse avvenire in modo molto riservato. Al suo rientro a Palazzo Chigi, fu circondato dai giornalisti – allora nel cortile del palazzo potevano passeggiare indisturbati – che si avvicinarono per chiedergli come fosse andato l’incontro per la scelta dei sottosegretari. E Cossiga, che era tante cose, ma era anche un burlone, rispose: «I muri di Villa Madama grondano ancora per gli schizzi di sangue». Si figuri se possono turbarmi due discussioni per un paio di sottosegretari.

Oggi più che mai la comunicazione è diventata un perno del fare politica. Lei ha avuto importanti esperienze in questo campo, ultima in ordine di tempo la nascita del quotidiano Domani. Da questa esperienza che lezione ha tratto?
Io mi sono occupato d’informazione in varie fasi della mia vita. Sono stato amministratore del Gruppo Espresso, nel Consiglio d’amministrazione della Rai e altre esperienze del genere. Non parlo quindi in particolare di Domani, ma in generale. La politica e l’informazione soffrono di una malattia molto simile. Così come la politica, negli ultimi decenni, preferisce parlare di tattica piuttosto che parlare di pensiero; preferisce parlare di alleanze piuttosto che di contenuti, di grandi obiettivi, altrettanto l’informazione preferisce lavorare sui retroscena, sulle nomine, piuttosto che aiutare il Paese a fare crescere il pensiero politico e a sciogliere i grandi nodi che ne impediscono lo sviluppo. Lo dico pensando a qualcosa che considero molto importante: l’informazione, non solo in Italia ma nel mondo, è diventata veramente il quarto potere. Può condizionare addirittura la fortuna di governi, certamente la carriera di leader. Può condizionare nel bene e nel male la politica. In più, i grandi giornali ma anche i giornali più piccoli, anche un giornale come Domani, sono diventati luoghi affollati di personalità della cultura. Potenzialmente, i giornali sono luoghi adatti per far crescere la maturità politica di un Paese, per affiancare all’informazione anche un po’ di didattica, etica, politica, cultura. La politica e la stampa spesso maturano insieme o appassiscono insieme.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.