Sessismo, abilismo, omofobia, transfobia, antisemitismo, islamofobia, body shaming… questo è un elenco non esaustivo (sia mai che dimenticarne qualcuno porti al mio deferimento al Tribunale dell’Intolleranza) delle tante sfaccettature dell’odio di questo inizio di secolo. L’odio permea i luoghi di studio e di lavoro e la nostra presenza online e la stigmatizzazione di queste vere e proprie malattie – alla base di altrettante discriminazioni ed esclusioni sociali –  viene fatta in una società che a volte rischia di fare l’errore opposto, cioè di rendere imperatore delle nostre discussioni, della nostra vita sociale il politicamente corretto, creando un mondo ovattato dove al vero si preferisca l’opportuno, la critica venga etichettata come discriminazione, il pensiero non allineato (o non polarizzato) venga crocefisso sull’altare del pensiero unico.

Ma il problema c’è. Esagerazioni a parte, è vero che è utile per tutti creare un luogo dove le differenze siano ricchezza, le parole violente vengano emarginate, le espressioni offensive mandate in pensione. E’ questione, banalissima, di civiltà. Di stare bene insieme, come società, come scuola, come azienda, come famiglia. Con il buon senso di evitare esagerazioni al contrario.

Capita poi che la censura – spesso giusta, dovuta, necessaria – arrivi però a senso alternato. In alcuni casi sì, in altri no.

Capita ad esempio che un giornalista, Filippo Facci, scriva un articolo decisamente inopportuno di commento alla vicenda che vede indagato il figlio del Presidente del Senato, Ignazio La Russa, e quell’articolo gli costi la trasmissione Rai che gli sarebbe stata assegnata. Capita che un giornalista, Alain Elkann, scriva sul quotidiano di proprietà della sua famiglia un articolo elitario ed intollerante di commento ad un lungo viaggio in treno insieme ad una banda di “lanzichenecchi”, esuberanti e non eruditi giovani ed in tal caso è il comitato di redazione a prendere radicalmente le distanze. Capita ancora che due giornalisti sportivi facciano in diretta pubblica televisiva pesanti commenti sessisti su una loro collega e giustamente – questa era la mia opinione, scritta su questo giornale – vengono sospesi dal loro canale.

Capita infine che Concita De Gregorio, una giornalista estremamente nota ed apprezzata, apprezzatissima esponente di quella sinistra radical chic che del “politicamente corretto” ha fatto una religione assoluta, incappi nel commento a quella storiella estiva che viene da Viggiù, dove alcuni influencer per farsi un selfie hanno distrutto una statua di un qualche pregio. E capita che nel criticarli usi espressione ben oltre il limite dell’accettabile: i ragazzi sono “decerebrati assoluti che in un tempo non così remoto sarebbero stati alle differenziali, seguiti da un insegnante di sostegno che diceva loro vieni tesoro, sillabiamo insieme, pulisciti però prima la bocca“. E’ abilismo, è oggettivo che è abilismo, non v’è dubbio alcuno.

Avete letto una nota del comitato di redazione di Repubblica, il quotidiano dove l’articolo è stato pubblicato? Qualche pubblica esecrazione? Qualche vate della sinistra radical chic urlare allo scandalo? Noi no. Abbiamo sì letto tante lettere di associazioni, tanti commenti sui social network, qualche blog che se ne è occupato. Ed abbiamo noi per primi registrato le giustissime prese di posizione di Lisa Noja e di Davide Faraone. Ma nulla più.

Perché? Perché lo ha scritto Concita. E tutto va bene.

Perché evidentemente la religione del politicamente corretto – che se non è religione, se non diventa dittatura, se è applicata col buon senso a noi va più che bene – è a corrente alternata. E Concita, no, Concita non si può toccare.

Giornalista, genovese di nascita e toscano di adozione, romano dai tempi del referendum costituzionale del 2016, fondatore e poi a lungo direttore di Gay.it, è esperto di digitale e social media. È stato anche responsabile della comunicazione digitale del Partito Democratico e di Italia Viva