Il flop dell'inchiesta umbra
Lo sfogo di Catiuscia Marini: “Che delusione Zingaretti, mi ha scaricato”

L’indagine di Terni si è conclusa con tante scuse: avevamo sbagliato, mandiamo al macero le carte e tanti saluti. “Il fatto non sussiste”: rimbomba l’eco rotonda dell’assoluzione. L’inchiesta, aperta nel novembre 2016, aveva fatto presagire l’Apocalisse. Mandato a casa il sindaco, il Dem Leopoldo Di Girolamo, ed acceso la miccia che porterà poi a far saltare la Regione Umbria, in continuità amministrativa dal dopoguerra fino ad allora.
Il 16 novembre, quindici giorni dopo che la terra aveva scosso Amatrice, arriva anche il terremoto giudiziario: Terni si sveglia in stato di guerra. Dall’alba, dalle regioni contigue, sono in marcia le autocolonne della Polizia, dei Carabinieri e della Guardia di Finanza. 52 volanti con le sirene accese circondano il Comune, un edificio modesto. Nel palazzo entrano 104 uomini in divisa, tutti armati. Un elicottero viene mandato a ruotare sopra Palazzo Spada, sede dell’amministrazione civica. Rimane sospeso due ore in aria, minaccioso e incombente come la regìa vuole, per le inquadrature. Quasi la prova generale di un golpe: mancavano i carri armati e i cavalli di frisia. Ci sono le pistole e le urla. Gli sfollagente e i lampeggianti. Per cosa? Per cercare delle carte. “Turbata libertà degli incanti e falsità ideologica”, si leggerà negli atti che sei mesi dopo porteranno, nel corso di una seconda puntata, all’arresto dei protagonisti, raggiunti da provvedimento di custodia cautelare al domicilio firmati dal Gip, Federico Bona Galvagno. L’elicottero. 52 volanti. 104 divise. Due anni in stato d’arresto. Ma “il fatto non sussiste”. Non era vero niente. «È una bellissima notizia, io non avevo mai avuto dubbi sulla loro onestà personale», fa sapere Catiuscia Marini, 9 anni sindaco e 9 anni Presidente della Regione. Colpita anche lei dalla “lettera scarlatta” delle Procure umbre, era stata costretta a dimettersi dal segretario del Pd, da cui si è sentita tradita. «Io non avevo dubbi, ma ricordo bene le posizioni pelose di alcuni esponenti Pd, anche parlamentari».
Catiuscia Marini è finita nel calderone che ha visto indagati 45 tra dirigenti, funzionari pubblici e rappresentanti istituzionali della Regione, con l’accusa di aver pilotato assunzioni nella sanità pubblica. Raggiunta da un avviso di garanzia, è stata abbandonata. E non solo come dirigente di partito, ma come membro di una comunità intorno alla quale – in un attimo – si è fatto il vuoto. A Perugia come a Terni, tra il 2016 e il 2018, se ne è avuta la dimostrazione plastica: bastava un tasto premuto dalla Procura ed ecco l’avviso di garanzia trasformato in siluro, in una bomba che fa saltare improvvisamente gli eletti, azzera le giunte, resetta le maggioranze e costringe a cambiare segno alla politica. «Ed è l’avvelenamento della democrazia», ci dice Marini. La sua esperienza amministrativa è stata interrotta dal combinato disposto tra Pm e Pd, partito che sulla vicenda umbra ha non solo perso la maggioranza in Regione, ma rinnegato la sua natura. «Ha rinnegato la sua missione di forza democratica, riformista e garantista», incalza l’ex governatrice della Regione. «E sono tre caratteristiche che devono strettamente rimanere connesse tra loro».
Un paradosso, per un Partito che amministra molto sul piano locale, disconoscere i propri amministratori…
Il Pd vive fino in fondo le sue contraddizioni, che sono quelle di un partito che non riesce ad affermare una cultura garantista ma spinge verso soluzioni che diventano di giustizialismo politico, utili ad avvicendare gruppi dirigenti interni. Fa fatica a difendere un profilo di garanzie nei confronti degli amministratori che sono in prima linea, è vero. Ed è contraddittorio. Perché sappiamo tutti che chi è in prima linea rischia sempre più, a livello giudiziario. Ma il Pd non ha mai fatto i conti con la necessità di dare forza a chi amministra: alla prima occasione utile, via le tutele. Al primo avviso di garanzia, non ti conoscono più.
Ma in quella cultura lei è nata e cresciuta, lei ha sperato che recuperassero una cultura garantista?
Ho sperato che nella notte difficile dei populismi, nell’arena in cui la spinta giudiziaria e populista si è fatta più forte, il Pd recuperasse la sua caratterizzazione riformista, dunque democratica e garantista. Una forza capace di esercitare una forza di alternativa netta ai populisti. Il garantismo nella giustizia è un pilastro. Invece di recuperare questo spazio, il più delle volte si è sentito prigioniero del populismo fino al punto di subirlo.
E lo ha subìto.
Nelle vicende umbre questo è molto evidente, anche nel rapporto con i Cinque Stelle. A Terni è andato Salvini, che ha marciato alla testa di un corteo giustizialista, con lo striscione “Di Girolamo vai a casa”, ma mentre lui faceva quello i Cinque Stelle andavano davanti al Municipio con le candele a celebrare “la morte del Comune”. Entrambi, come nella vicenda della Regione, hanno colpito uniti per infangare i rappresentanti Democratici, che oggi la giustizia riconosce del tutto innocenti. Ma mentre gli avversari ci infangavano, i nostri dov’erano? Dalla loro. E se la bandiera del garantismo non ce l’ha il Pd, chi deve averla, in questa fase storica? In questa vicenda, anche difficile sul piano personale, ho trovato le ragioni per fare una battaglia culturale e politica su questi temi. Al servizio di una comunità politica. Solo alcuni di noi che l’hanno vissuta cruentemente sulla propria pelle, possono vedere tutte le storture che ci sono, non solo dal punto di vista dell’ordinamento della giustizia. Per riformare la giustizia bisogna ripartire dal Parlamento. La sinistra è stata anche garantista. Lo è stata nel dopoguerra, perché non si fidava dei magistrati usciti dal fascismo. Lo è stata negli anni Settanta e negli anni Ottanta perché in certi eccessi, nelle vicende dei Movimenti giovanili aveva recuperato una visione garantista. Da Tangentopoli in poi torna la cultura giustizialista.
Che cosa, secondo lei, avrebbe cambiato il Pd?
L’ambizione di fare sempre e comunque la forza di governo ha costretto a perdere pezzi di cultura garantista. Il fatto di non vedere come un problema la gigantesca piaga delle carceri, non è strano?
La sorprende?
A me sorprende che la sinistra non riesca a parlare delle condizioni di vita nelle carceri italiane, che faccia fatica a studiare misure alternative alle pene. Le misure tanto moderne adottate come provvedimenti di bandiera dai partiti socialdemocratici europei, da noi diventano un tabù.
Si aspettava di più da Zingaretti?
Certamente sono rimasta delusa da un segretario nazionale che era peraltro anche un collega presidente di Regione, che avrebbe dovuto essere il primo a mettere un freno, facendo rispettare norme garantiste. E vedo trasformato il Pd in un partito non riformista.
Nella segreteria del Pd c’è Verini, che si occupa di giustizia
Verini ha molte responsabilità sulla gestione politica della vicenda umbra. Ha fatto il commissario e per anni si è tenuto distante dagli indagati. Poi ieri, una volta assolti, eccolo tornare in scena con una dichiarazione da “garantista del giorno dopo”. Eh no Verini, il giorno dopo l’assoluzione, è tardi. Bisogna affermare principi e garanzie prima dei tribunali, non sempre e solo andarci a ricasco.
Verducci, Giovani Turchi, ha avuto un atteggiamento diverso. Nella vicenda politica umbra hanno pesato anche le dinamiche congressuali?
Nelle vicende politico-giudiziarie pesano sempre le dinamiche interne. D’altronde nel Pd non tutti si sono dimessi all’arrivo dell’avviso di garanzia. Io oggi mi auguro che sull’esperienza della vicenda umbra ci siano, dentro il Pd, persone che abbiano il coraggio di aprire un confronto di merito.
Crede ancora nel Pd come casa dei riformisti?
Credo che il Pd non basti più così com’è, che vada rifondato, allargato, anche attraverso l’ingresso di soggetti autenticamente riformisti.
Come vede l’alleanza organica con i Cinque Stelle?
Mi lascia molto perplessa. Al di là dei numeri per fare la maggioranza, bisogna condividere un’idea di società, una cultura politica, un progetto di lungo respiro. Lo condividiamo con i Cinque Stelle? Non credo.
Renzi l’ha citata nel suo libro, come esempio di amministratrice colpita dalla degenerazione giustizialista.
E l’ho apprezzato moltissimo.
In Umbria veniva spesso Calenda, quando era ministro.
Ho conosciuto il suo spessore e la sua tenacia nelle grandi questioni industriali della nostra regione, dove si è impegnato moltissimo. E penso che possa essere per Roma il miglior sindaco possibile. Anche a Roma si è dato vita a una operazione giudiziaria in nome dell’onestà che ha portato la città in stallo.
M5S a Roma e Lega nella sua Umbria. Due autogol del Pd?
Due partiti che cavalcano l’onestà a senso unico. Perché difendono i loro indagati a spada tratta, mentre si affrettano a indignarsi per le indagini che coinvolgono gli avversari. Ha contato quanti avvisi di garanzia hanno gli amministratori grillini, e quanti i leghisti? Loro sono giustizialisti solo verso gli altri. All’interno sono ipergarantisti. L’unico partito che appena sei attinto dalle indagini, ti condanna preventivamente, è il Pd. Così facendo si continua a offrire il fianco: si abbandonano i propri eletti e si butta tutto all’aria. Si è persa così Roma e l’Umbria. E non so se si è imparato da questi errori.
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