La distanza precisa che separa Roma da Milwaukee, città del Winsconsin dove la scorsa settimana si è celebrata la convention del Partito repubblicano per consacrare la candidatura di Donald J. Trump, è esattamente di 7.672 chilometri. Non uno in meno né uno in più, stando alla misurazione effettuata interrogando semplicemente barra di ricerca di Google Maps. Una distanza che oggi può essere percorsa in appena 13 ore e 45 minuti, il tempo che corrisponde esattamente alla durata del volo aereo per andare da una parte all’altra dell’oceano Atlantico, compreso lo scalo da fare a New York. Quindi con poco più di mezza giornata di viaggio è possibile conoscere e immergersi nei rituali, nelle consuetudini e toccare con mano i trend della campagna più importante e discussa di questo anno di elezioni mondiali.

Trump e il folklore scenografico

L’appuntamento di Milwaukee – che si è tenuto qualche giorno dopo il fallito attentato a Trump durante il comizio che l’ex presidente stava facendo a Butler, in Pennsylvania – ha rispettato senza particolari sorprese tutti i cliché consolidati di luci, lustrini, palloncini e maxi flyer che rappresentano oramai il folklore scenografico tipico delle convention presidenziali. Un rituale standardizzato nei minimi dettagli dove al proprio interno ha trovato posto anche l’intervento di Terry G. Bollea, al secolo Terrence Gene Bollea, che sul palco si è strappato prima la giacca, poi la camicia per mostrare ai delegati la canotta rossa con la scritta Trump – Vance. L’ex wrestler professionista dal carattere teatrale – come scrivono Tim Balk e Maya King nel loro reportage pubblicato dal New York Times – ha mostrato i muscoli, elettrizzando il pubblico, con un racconto appassionato di come è arrivato a sostenere l’ex presidente.

Hulk Hogan fedele alla narrazione trumpiana

Benintesi: l’esibizione (perché di questo si è trattato) di Hulk Hogan non è stata vista come un’eccezione, una nota stonata, una virgola fuori posto o un intermezzo kitsch che nulla aveva a che fare con la cornice dell’appuntamento elettorale, ma all’opposto è stata vissuta e commentata come una parte del tutto coerente e credibile della più ampia narrazione trumpiana. Non di meno – per dirla tutta – evitando così di scadere in uno sociologismo deteriore che non serve a nulla, lo show di Hulk Hogan è risultato fedele a quelle grandi matrici che da sempre popolano di senso la narrazione americana: il primato della bandiera a stelle e strisce, la forza di ribellarsi a un destino già scritto, la centralità della figura dell’eroe che impavido affronta un nemico e che vince le sfide più impossibili.

Del resto negli Stati Uniti la comunicazione politica ha abbracciato convintamente già da diversi decenni la dimensione del politainment, che spinge i politici e i candidati – come descritto dal politologo americano David Schultz – a saturare gli ambienti, ad azzerare la distinzione tra ruolo pubblico e vita privata per arrivare a fondere i confini tra la popolarità, costruita mediaticamente dalla tv alle piattaforme, e l’incarico istituzionale. Tutto per cercare di ottenere l’attenzione dei cittadini e degli utenti-follower. Quindi è saltata come il tappo dello spumante quella separazione (un tempo evidente) tra il politico di professione e l’intrattenitore, tra l’influencer e il presidente, tra la rincorsa alla celebrità e quella all’autorevolezza. Negli Stati Uniti il muro è caduto da anni: nel 1998 Jesse Ventura, anche lui ex wrestler e attore, fu eletto governatore del Minnesota, così come prima di lui c’è stata la presidenza di Ronald Reagan alla Casa Bianca o l’avventura di Arnold Schwarzenegger come governatore della California.

In Italia circo mediatico su Pino Insegno

Dunque, a guardarla dalla sponda italiana, questa distanza tra le nostre e le campagne elettorali a stelle e strisce può essere calcolata non più in chilometri e neanche in ore di volo ma con le hulkhoganmiglie, una speciale e provocatoria unità di misura che ci catapulta invece qualche decennio indietro. La variante italica all’Hulk Hogan con la bandana in testa, gli occhiali a specchio e il baffo a manubrio, è stato Pino Insegno, l’attore e doppiatore romano che il 22 settembre di due anni fa salì sul palco di Piazza del Popolo per presentare Giorgia Meloni nella manifestazione di chiusura della campagna elettorale della coalizione di centrodestra. Ovviamente quei pochi minuti generano il solito circo di polemiche pelose e di attacchi social, eppure nei toni, nella postura e nel linguaggio Insegno fu molto sobrio, altro che Hulk Hogan, toccando il clou dell’emotività teatrale citando uno dei passaggi più celebri della saga del Signore degli Anelli, “verrà il giorno della sconfitta, ma non è questo”.

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Domenico Giordano è spin doctor per Arcadia, agenzia di comunicazione di cui è anche amministratore. Collabora con diverse testate giornalistiche sempre sui temi della comunicazione politica e delle analisi degli insight dei social e della rete. È socio dell’Associazione Italiana di Comunicazione Politica. Quest'anno ha pubblicato "La Regina della Rete, le origini del successo digitale di Giorgia Meloni (Graus Edizioni 2023).