L’altro giorno l’ambasciatore dello Stato di Palestina presso le Nazioni Unite ha inviato al Consiglio di Sicurezza una lettera che, lungo 5 pagine, elenca i crimini di cui la popolazione palestinese sarebbe vittima per responsabilità di Israele: pulizia etnica, inedia, persecuzioni, apartheid, genocidio. Si tratta di accuse tanto gravi quanto prevedibili da parte di un’entità nemica di Israele, la quale – a dispetto di un ormai risalente e precario riconoscimento dello Stato ebraico – ha sempre ritenuto e ha sempre indottrinato i palestinesi a ritenere che il presupposto dell’autodeterminazione risiedesse nella guerra a Israele.
Nulla di stupefacente, dunque, se il cosiddetto Stato di Palestina fa quest’ennesima requisitoria chiedendo al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di esibirsi nell’ennesima risoluzione a contrasto delle operazioni israeliane a Gaza e nei cosiddetti territori occupati. Solo che l’ambasciata palestinese alle Nazioni Unite, con questa sua lettera, rinuncia ancora una volta (come vi ha rinunciato durante un anno e passa di conflitto) a distinguersi in qualsiasi modo dai macellai che il 7 ottobre hanno sventrato Israele e che, dopo il 7 ottobre e sino a oggi, hanno continuato a far piovere razzi sui civili israeliani e a tenere sequestrati, a torturare e a uccidere gli ostaggi. Per non dire della sofferenza che Hamas infligge direttamente alla popolazione di Gaza, a nome della quale fa mostra di parlare l’ambasciatore palestinese. Non si ricorda nulla, promanante dal cosiddetto Stato di Palestina, a denuncia non si dice (figurarsi) dei proclami genocidiari di Hamas nei confronti degli israeliani e degli ebrei, ma neppure a denuncia delle rivendicazioni dei capi-tagliagole sull’uso dei bambini palestinesi come “attrezzi” da opporre alle bombe israeliane.
Dai lombi del cosiddetto Stato di Palestina non ha avuto la forza di venire neppure un conato di rivolta contro un “occupante” – Hamas – che non ha costruito centinaia di chilometri di tunnel per proteggere la popolazione, ma per fare di Gaza un enorme bunker che quella popolazione sequestra trasformandola in un ammasso di roba sacrificale.
Le legittime rappresentanze palestinesi avrebbero potuto dare segno di essere, e soprattutto di voler essere, qualcosa di diverso rispetto a quelli che sequestrano i convogli degli aiuti per poi rivenderli a strozzo alla popolazione palestinese di cui si lamenta la condizione derelitta. Avrebbero potuto ricordare che, ferme (dal loro comprensibile punto di vista) le responsabilità israeliane, qualcos’altro affligge – e non dal 7 ottobre, ma da sempre – i diritti della popolazione civile palestinese, vittima di una sopraffazione barbarica che l’ha tenuta avvinghiata a un eterno presente di arretratezza, destinandola a un futuro di miseria e a corpetti pieni di tritolo.
Se in quelle 5 pagine avesse trovato posto anche solo un rigo di ripudio delle pratiche e delle ambizioni sterminatrici di Hamas, allora avremmo potuto cominciare almeno a far finta di credere che il cosiddetto Stato di Palestina possa essere alcunché di diverso rispetto al simulacro cannibalizzato cui si riduce.