Da quel famigerato febbraio del 2022, il tema all’ordine del giorno dell’Occidente è il sostegno all’Ucraina. Come, fino a che punto, e soprattutto fino a quando, sono gli interrogativi che agitano non solo il governo di Kiev ma anche quelli europei e degli Stati Uniti. E più passa il tempo, più si fa grande la distanza temporale dall’inizio dell’invasione e più le risposte a queste domande iniziano a farsi complesse e meno intransigenti. Nessuno ha mai esplicitamente affermato di volere rinunciare a sostenere militarmente e politicamente l’Ucraina durante il conflitto. Tuttavia, l’impressione è che da qualche mese a questa parte, diversi fattori hanno iniziato a incrinare alcune certezze che apparivano granitiche. Le pressioni sui risultati della controffensiva, i timori dell’ala dura e pura – ma ancora forte – del Partito repubblicano Usa in vista delle prossime presidenziali, il vento elettorale in Europa sempre meno favorevole a questo tipo di sostegno a Kiev e gli effetti economici del conflitto hanno inciso sul modo in cui i governi occidentali guardano al conflitto.

E non poteva essere altrimenti, soprattutto perché tanti elettori si domandano quali siano le prospettive da qui al prossimo futuro e anche molti decisori iniziano a porsi dei quesiti. In questo senso, è molto significativo quello che è accaduto negli Stati Uniti con l’accordo al Congresso che ha evitato per ora lo shutdown ma che ha cancellato 6,2 miliardi di dollari in favore dell’Ucraina. Washington ha senza dubbio altri strumenti legali e altre vie politiche per fare arrivare comunque il suo supporto economico e bellico alle forze di Kiev impegnate nelle operazioni contro l’armata russa. Tuttavia, il segnale politico è più che eloquente e conferma proprio quei sentimenti contrastanti che animano in particolare il blocco repubblicano, preoccupato da un eventuale ritorno di fiamma di Donald Trump. Lo speaker repubblicano Kevin McCarthy aveva fatto capire l’irrigidimento sul tema ucraino proprio durante la visita del presidente Volodymyr Zelensky a Washington, quando ha accusato Joe Biden di pensare “solo” a Kiev. “Abbiamo i nostri problemi fiscali di cui occuparci e ci sono diecimila persone che hanno appena attraversato il confine” sottolineò lo speaker Gop mentre il capo dello Stato ucraino faceva capire di avere ancora bisogno degli Stati Uniti. E quel muro repubblicano confermato anche dall’accordo in extremis con i democratici è un messaggio che molti considerano più di una semplice battaglia ideologica.

Basti pensare che il noto portale Politico, uno dei più influenti e inseriti all’interno dell’establishment statunitense, ha svelato un documento riservato dell’amministrazione Usa in cui si evidenziano i timori sulla corruzione a Kiev, ritenuta dai funzionari del governo come una minaccia in grado di “minare la fiducia dell’opinione pubblica ucraina e dei leader stranieri nel governo di guerra”. La rivelazione arriva dopo una serie di licenziamenti nella Difesa di Kiev proprio a seguito delle accuse di corruzione interne al dicastero, e sembra indicare che quella è ancora la spada di Damocle per l’esecutivo di Zelensky ma anche una potente leva negoziale e politica da parte dei più critici. Il problema di questa disaffezione è stato osservato anche in Europa, dove in particolare pesano le tornate elettorali più o meno recenti che rischiano di cambiare la geografia dei sostenitori della causa ucraina in Ue. L’ultimo in ordine di tempo è il voto in Slovacchia, dove colui che ha raccolto più consensi è quel Robert Fico già ritenuto da molti come una potenziale crepa all’interno del sistema. In campagna elettorale non ha disdegnato provocazioni e prese di posizioni molto nette nei confronti della guerra e del supporto bellico per Kiev. E molti osservatori sono preoccupati che il precedente slovacco possa essere un acceleratore di altre dinamiche elettorali nel Vecchio Continente.

Del resto, la guerra e la vicinanza a Kiev sono entrate in toni anche sorprendetemene critici nella campagna elettorale interna al Paese più nettamente schierato con Zelensky: la Polonia. Atteso dal voto del 15 ottobre, il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki, che di certo non si può definire filorusso, le scorse settimane ha già messo in guardia il Paese invaso per quanto concerne il grande tema del grano. Mentre più recentemente, Morawiecki ha posto l’accento sulla sinergia che è sorta tra Kiev e Berlino. A questo proposito, particolarmente interessante è l’ultimo avvertimento segnalato dalla polacca Dziennik Gazeta Prawna e riportato dall’Ansa. In un comizio, il premier sovranista si è rivolto ai vicini ucraini avvertendoli riguardo l’amicizia con la Germania e ricordando non solo il supporto fornito dalla Polonia ma anche gli antichi legami economici tra Berlino e Mosca. Frasi utili alla campagna elettorale? Possibile. Ma intanto, al Consiglio Affari Esteri informale nella capitale ucraina, la Polonia ha deciso di inviare solo un viceministro.

I delegati dei Paesi membri, in questo incontro così simbolico e fortemente voluto da Bruxelles, hanno sottolineato il loro impegno nel sostenere l’Ucraina sia dal punto di vista militare ed economico sia nella prospettiva di un suo ingresso nella famiglia Ue. Lo ha affermato in modo perentorio anche l’Alto Rappresentante Josep Borrell in conferenza stampa, il quale ha anche tenuto a sottolineare che l’unica pace possibile è quella prevista dal piano proposto da Zelensky e che non esistono altre iniziative discusse ora dalla comunità internazionale. Ma le parole riportate da Adnkronos del ministro degli Esteri lituano Gabriel Landsbergis, sempre molto puntuale quando si tratta di sondare il termometro politico dell’Occidente su Kiev, appaiono indicative: “Ci stiamo avvicinando a un punto cruciale nel nostro sostegno all’Ucraina in cui se non vengono presi impegni politici seri, si può dubitare che parliamo seriamente quando che diciamo che stiamo con l’Ucraina per tutto il tempo necessario”.