Se si dovesse sceglierne per forza una sola, la principale ragione per cui ci preoccupiamo per l’andamento del Pil – e in particolare delle recessioni – è la cosiddetta Legge di Okun, secondo cui il tasso di disoccupazione scende se il Pil cresce “abbastanza”.

Detto in altri termini, non ci preoccupiamo direttamente per il fatto che gli impianti e i macchinari siano utilizzati di meno durante una recessione, ma naturalmente badiamo all’occupazione dei lavoratori, che è depressa da una produzione e da una domanda deboli. Dunque il più forte respiro di sollievo intorno alla ripresa “a V” dopo la recessione dovuta alla pandemia e ai lockdown è connesso al calo deciso del tasso di disoccupazione italiano, il quale è sceso a livelli inferiori rispetto a quelli tipici del periodo pre-pandemico, all’incirca dal 9% al 7%.

Tuttavia il quadro del mercato del lavoro – che è fatto di flussi mensili di persone che vengono assunte, persone che vengono licenziate e persone che decidono di dimettersi volontariamente dal proprio impiego – non va soltanto considerato sotto il profilo del suo andamento aggregato (cioè come livello e variazione del tasso di disoccupazione) ma anche tenendo conto – pur a livello complessivo – della tipologia di contratti di lavoro presenti, attivati e terminati.

Qui la distinzione cruciale è tra contratti di lavoro a tempo determinato e indeterminato, che diventa ancora più rilevante nei Paesi in cui il welfare state non dedica sufficienti risorse per finanziare un sussidio di disoccupazione universale e sufficientemente generoso, così da rendere molto più gestibile dal punto di vista economico, psicologico e sociale la situazione di chi è precario, cioè passa da un contratto a tempo determinato all’altro, senza garanzie forti sulla permanenza nello stesso posto di lavoro.

Questo è il caso dell’Italia e del suo welfare, e dunque vanno letti con attenzione maggiore i dati raccolti e analizzati dall’Osservatorio dell’INPS sul precariato. Le ultime informazioni relative allo scorso aprile – uscite giovedì – mostrano un bilancio tra contratti a tempo determinato e indeterminato che è in miglioramento, e che sembra parecchio lontano da due “narrative” che nel periodo pandemico qualcuno ha largamente quasi desiderato che fossero vere. La prima narrativa è quella secondo cui solo un intervento statale massiccio può portare a disoccupazione bassa ed elevata percentuale di lavori a tempo indeterminato, secondo uno sghembo pensiero caricaturalmente keynesiano e fattualmente socialisteggiante.

L’altra narrativa si focalizzava sull’aumento forte delle dimissioni dai posti di lavoro stabili, forse per inseguire scelte di vita basate sullo smart working e sui lavori flessibili, come se i lockdown e il lavoro da casa potessero essere un modo inerzialmente dominante di vivere la propria vita, semplicemente innescati dalla pandemia.

A quanto sembra, nessuna delle due “nuove normali” vagamente vagheggiate da un compendio assortito di fautori del “nulla sarà come prima” e di vecchie/nuove egemonie si è realizzata, almeno per ora. I dati raccolti dall’INPS mostrano come in un anno – da aprile 2022 ad aprile 2023 – vi sia un saldo positivo di quasi mezzo milione di posti di lavoro (492.000 per l’esattezza) e che di questo saldo, il quale ovviamente risulta dalla differenza tra assunzioni e cessazioni nel periodo, ben 390mila sono per posti a tempo indeterminato, cioè quasi l’80% del totale.

Questo è a mio parere il dato più significativo che si può desumere dal rapporto, e che va posto in relazione con il fatto che la componente fondamentale che spiega questo andamento è costituita dalle trasformazioni da tempo determinato, cioè contratti esistenti che vengono convertiti in posti stabili: si tratta di 281mila trasformazioni avvenute nei primi quattro mesi del 2023, in aumento dell’11% rispetto allo stesso dato per i primi quattro mesi del 2022.

Infine, le attivazioni di posti di lavoro connesse ad agevolazioni fiscali e contributive seguono l’andamento opposto, in quanto calano del 12% rispetto al 2022. Ma non era lo Stato che deve creare lavoro stabile? I dati non vanno tanto d’accordo con questa visione.