Corrado Formigli, durante la puntata di giovedì di Piazza Pulita, incalza Luca Palamara sul Sistema ma quando si parla del ruolo dell’informazione fa finta di nulla. I giornalisti, secondo lui, devono per forza di cose pubblicare le carte che arrivano dalle procure, la fuga di notizie riguarda esclusivamente i pm. A parte che questa volta ci devono spiegare bene perché il Fatto quotidiano e Repubblica hanno deciso di non dare notizia delle carte spedite dal Csm, il problema ancora maggiore è capire come – dopo anni e anni di circo mediatico giudiziario – nessuno sia capace di fare un minimo di autocritica. Non si tratta di una questione moralistica, ma democratica. Se anche l’informazione non si mette in discussione, il terremoto che sta scuotendo la magistratura italiana non serve proprio a nulla. Zero.

Eppure il Sistema dell’informazione non viene toccato. Osserva le liti tra magistrati con estremo gusto e legge il bestseller di Palamara come se parlasse di qualcosa che non lo riguarda. Ma se la questione giustizia è diventata un’emergenza di questo Paese è perché giornali e tv sono stati complici. Certo, per Formigli c’è in gioco la libertà d’espressione, un valore indiscutibile. Ma che cosa c’entra la libertà d’espressione quando le carte passate dalle procure alle redazioni violando il segreto istruttorio contengono i nomi di indagati che neanche sanno di esserlo? E cosa c’entra con la libertà d’espressione il fatto che questi nomi vengano sbattuti in prima pagina a caratteri cubitali? E cosa c’entra con il fatto che quelle persone e spesso i loro cari vengano marchiati con il fuoco della colpa, ancora prima del rinvio a giudizio o comunque della condanna definitiva?

La risposta è facile, la soluzione lontana. Perché il Sistema dell’informazione continua a far finta di nulla. Ieri ha goduto della caduta di Palamara, come oggi gode della caduta del suo (ex) mito Davigo. Continua nella stessa direzione di marcia pensando di farla franca, di potere continuare come se niente fosse. Ma la sfiducia dei cittadini nei confronti della giustizia dovrebbe far venire qualche dubbio, far capire che prendere per buone le notizie che arrivano dalle procure senza fare verifiche, senza ricordarsi il valore delle presunzione di innocenza ha minato anche la credibilità dei giornali. L’intreccio tra questi due mondi è sempre più visibile. Prendiamo un altro caso che in questi giorni sta occupando le pagine del giornali: il presunto scoop di Report contro Renzi, beccato nell’autogrill di Fiano Romano da una fantomatica signora, la cui versione traballa ogni ora di più. Un servizio montato ad arte per incutere dubbi, ma senza nessun dato che possa avvalorare alcunché, men che mai che dietro la caduta del governo Conte ci sia l’ennesimo complotto.

Quale credibilità può avere un’informazione che si fa lotta politica e che pensa di screditare l’avversario usando questi metodi? Se l’obiettivo è gettare fango, ogni mezzo è lecito. Come quello usato da Report quando realizza lunghe interviste e le taglia stravolgendole completamente. È un metodo collaudato. Si fa credere all’intervistato che la sua versione possa essere usata in maniera da non distorcerne il pensiero, poi si prendono alcune frasi qua e là e si montano a piacimento. Lo scorso lunedì è stato fatto sia con Renzi che con il direttore di questo giornale. Si chiama spazzatura, non certo giornalismo. Ma anche in questo caso nessuno dice niente. O meglio qualcuno prova a dirlo.

Ha fatto bene Davide Faraone di Italia Viva a ricordare al direttore di Raitre Franco Di Mare che qualora viale Mazzini querelasse Fedez per avere tagliato (e secondo loro stravolto) la telefonata in cui gli si facevano pressioni per non usare il testo a favore della legge Zan sul palco del Primo Maggio, allora dovrebbe allo stesso tempo procedere contro la trasmissione di Report che ha fatto anche di peggio con altri intervistati. Se il valore è la libertà di espressione, esiste anche quella dei cittadini, non solo dei giornalisti di fare come accidenti pare a loro. Tagliare le frasi, montarle liberamente è un metodo violento, autoritario, che niente ha a che fare con la democrazia e che fa il paio con chi in questi anni ha alimentato l’onda populista e complottista. La campana suona per la magistratura, ma anche per noi.

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