La cultura del sospetto. Luogo comune particolarmente logoro, lo sappiamo. Certo la Scuola del sospetto annovera padri nobili nella storia della filosofia (Marx, Nietzsche e Freud), ma censisce anche emuli dotati di scarse attitudini. Nella società dei terrapiattisti, dei no-vax, dei complottisti il sospetto non è più l’anticamera di una più evoluta e profonda conoscenza della realtà; il primo passo verso la demistificazione delle false verità, ma si è trasformato in una sorta di cloaca in cui ciascuno riversa la propria riprovevole ignoranza e si consente opinioni che altrimenti non potrebbe esprimere per la mancanza di conferme inoppugnabili.

Consumato il rito di dar qualche lustro al discorso, affondiamo il bisturi nel pasticcio Amara che tanto insanguina le strade, già insicure e pericolose, della magistratura italiana. A oltre un anno e mezzo dalle prime, sistematiche dichiarazioni del discusso avvocato siciliano una nebbia fitta avvolge il caso. Per carità, il segreto investigativo è sacro e sicuramente verranno fuori pacchi di intercettazioni, tabulati, riscontri, sequestri. Tutta roba della quale, in verità, non si sa nulla al momento, ma che è lecito ritenere sia nei cassetti di qualche procura della Repubblica e in attesa di essere tirata fuori quando le indagini saranno concluse. Una certa prudenza esigerebbe che il discorso si concludesse qui. Non abbiamo elementi per dire se Amara menta o dica la verità, c’è chi è preposto a questo compito, ci dovremmo sedere e attendere che qualche cadavere cominci a scendere la corrente. Per il resto chiacchiere in libertà o quasi.

Però. Però qualche cosa si dovrebbe pur dire al cospetto di quanto è accaduto visto che quanto è accaduto dentro e fuori i palazzi del potere giudiziario non ha nulla a che vedere con le accuse così controverse dell’avvocato Amara circa un contropotere dedito a condizionare le nomine in magistratura. Il pentito e la sua gestione sono cose da tenere tendenzialmente distinte e separate. L’uno può essere un calunniatore seriale, ma ciò non esclude che chi se ne sia occupato possa aver gravemente sbagliato. L’uno può voler infangare, ma chi lo ha avuto in carico potrebbe essersi sottratto al dovere di essere tempestivo e risoluto nei controlli. Mescolare le due cose è un po’ un imbroglio che confonde ancor di più le già torbide acque dello stagno.

Tre punti. La cosa è complessa assai e per voler far chiarezza si dovrebbe far finta di ignorare che la confusione e lo smarrimento possano essere stati proprio i primi obiettivi di questa curiosa Anabasi che vede un pentito di qualche vaglia errare di procura in procura e risalire la penisola da Siracusa a Milano con alcune, ancora poco chiare, tappe intermedie. Di solito se l’accusatore è di rango e rivela cose importanti le procure della Repubblica fanno a sportellate per accaparrarselo e per gestirlo, questa volta si coglie piuttosto un infastidito e, a tratti, imbarazzato rotolare della palla da un procuratore a un altro, tutti non particolarmente proclivi a sbrogliare la matassa.

Distinguere le cose vere dalle cose false è operazione difficile assai, per cui più semplice collocarsi all’esterno del narrato e proclamare – senza alcuna verifica – che il Tizio mente oppure Tizio dice la verità. Così, come si vuol dire, a prescindere ossia per una sorta di misteriosa pre-comprensione del tutto che aiuta a intuire – con largo anticipo e senza alcun controllo – se il pentito è verace o è un pataccaro. Insomma, a occhio e croce è quello che hanno fatto pur prestigiosi epigoni dell’informazione che – contraddicendo una prassi arcaica che vede uscire i verbali delle dichiarazioni dalle stanze dei pubblici ministeri verso le redazioni dei giornali – questa volta, questa sola volta, gli hanno fatto compiere il percorso inverso per riportare nelle stalle i buoi che ne erano maldestramente scappati.
Il sospetto. Ecco cosa sembra, oggi, aver mosso tutti i protagonisti di questa vicenda. Il sospetto che Amara menta, il sospetto che Amara abbia detto in tutto o in parte qualche verità, il sospetto che qualcuno non volesse investigare, il sospetto che qualche pur integerrimo magistrato fosse un incappucciato, il sospetto che le carte le abbia tirate fuori qualche entità segreta per avvelenare i pozzi delle nomine in procure importanti, il sospetto che quello della stanza accanto fosse un infiltrato della loggia Ungheria, il sospetto che Amara sospettasse di altri affiliati, il sospetto dei giornalisti di essere strumentalizzati, il sospetto che si sia fatto un gran pettegolezzo sul contenuto dei verbali a discapito di ogni etica.

C’è da chiedersi: ma quando è successo che la cultura delle investigazioni, la stagione delle intuizioni ragionevoli e ponderate dei grandi maestri delle indagini (da Falcone a Maddalena, da Cordova a Vigna) ha ceduto il passo ai cacciatori di ombre? Quando l’asettico e distaccato vaglio delle accuse è divenuto tifo e partigianeria per una tesi preconcetta? Quando i pentiti sono stati ammutoliti perché raccontavano cose che non si allineavano alle verità dei pubblici ministeri? Quando la cultura del sospetto ha smesso di interrogare la realtà per smascherarne la menzogna e ha elevato il sospetto stesso alla dignità di unica certezza possibile? Un atteggiamento che nega al processo ogni valore, che nega in radice la sua capacità di pervenire a una verità e lo sostituisce con la scorciatoia del pregiudizio, con l’ombrosa, interiore certezza di saper esattamente le cose come stiano senza bisogno di fastidiose prove. Con verbali che rimbalzano sulla libertà di stampa per farsi occasione di altri sospetti e la funzione investigativa smarrita dal cieco pregiudizio che nulla ha a che vedere con la giurisdizione.