È fuori di dubbio il fatto che dal Dopoguerra ad oggi il sistema agricolo occidentale, spinto dalle rivoluzioni della meccanica, della chimica, della genetica, sia stato capace di performance produttive e di un miglioramento della qualità della vita degli stessi agricoltori, fino ad allora impensabili. È altrettanto vero che da sistema energicamente autonomo è diventato un sistema energivoro, grande consumatore di input esterni e produttore di scarti abnormi e spesso giustificati solo da discutibili regole di mercato. Nello stesso tempo, i costi della manodopera, degli input e dei servizi aziendali hanno assunto dimensioni sempre più rilevanti e il modello di distribuzione è radicalmente cambiato. A livello europeo oltre il 70% della spesa alimentare si fa nella grande distribuzione organizzata e il trend è destinato a crescere. Il mondo rurale paga il conto di una frattura culturale con la società urbanizzata che non conosce la realtà del mondo agricolo, ma che chiede di assolvere compiti e servizi che essa stessa non svolge.

Così comunità urbane che dissipano energia e che non hanno alcuna politica sull’energia rinnovabile o sul risparmio idrico pretendono che siano i campi a riempirsi di agro o fotovoltaico, eolico se non addirittura produrre combustibili ecocompatibili, al posto di produzioni alimentari; è ancora l’agricoltura a dovere svolgere servizi ecosistemici che le città negano ai loro stessi abitanti; sono gli agricoltori a dovere produrre cibo sano per città inquinate e inquinanti. E, naturalmente, tutto questo il sistema agricolo deve farlo mantenendo basso il costo o il valore delle proprie produzioni e una certa allure di “naturale”, che sa tanto di presepe. Eppure, ancora oggi, l’Italia ha un primato mondiale nella qualità del cibo offerto dalla nostra agricoltura, almeno in termini di residui e di controlli. In Europa e anche in Italia la spesa alimentare non è che una frazione del nostro costo di vita, non più del 15%, meno di cellulari e servizi tecnologici, mobilità e sanità. L’uomo occidentale non si rende conto di quanto sia incredibilmente limitato il tempo che impiega per procurarsi e preparare ogni giorno il cibo che consuma e chiede addirittura che si riduca ancora.

La comunità urbana chiede, almeno così pare, qualità italiana, pasta italiana, prossimità di prodotto? Bene, quanto è disposta a pagarla all’agricoltore, piuttosto che al sistema della distribuzione? Il tema anche in questo caso è politico e organizzativo. Il Ministro Lollobrigida, immagino e spero solo per provocazione, ha detto di non comprendere perché il consumatore italiano non sia disposto a comprare l’olio extravergine di oliva a 20 euro al kilo, come fosse, a suo parere, solo un problema di comunicazione. Dovrebbe invece chiedersi o chiedere a chi lo sa – siamo in tanti – perché l’Italia di oggi produce il 30% dell’olio di oliva che le serve e non potrà mai fare di più se non si approva un piano olivicolo decente e si continua solo a immaginare di difendere oliveti plurisecolari e poco produttivi. Volete davvero ridurre i fitofarmaci? Allora premete sull’acceleratore del miglioramento genetico legato alla selezione di cultivar resistenti o tolleranti; mettete in mora l’Europa sulla necessità di sviluppare la ricerca pubblica sulle TEA, sulle quali l’atteggiamento di buona parte della comunità green è certamente sbagliato e privo di alternativa. Questa sarebbe la giusta battaglia per difendere il nostro primato, altro che la demagogica lotta alla carne sintetica e alla farina di grillo! È ora di dire chiaramente che il problema non è solo l’importazione di derrate dall’estero, ma anche il fatto che moltissime delle varietà vegetali coltivate in Italia derivano da miglioramento genetico di altrove. È così per buona parte dell’ortofrutta, ma anche delle carni.

Ricostruire la filiera dalla costituzione di nuovi genotipi al rafforzamento del sistema vivaistico e del suo rapporto con i produttori è la sfida di oggi e di domani, quella sulla quale la Spagna, per esempio, ha vinto su di noi. Immaginare di togliere gli aiuti sul carburante agricolo per convince al passaggio su mezzi alternativi ancora inesistenti e costosi è pura follia, come è anche vero che non si può continuare a richiedere alle produzioni italiane ed europee, giustamente, un protocollo di certificazione dopo l’altro, teoricamente su base volontaria, ma di fatto obbligatoria nel rapporto con la GDO e andare in deroga per quelle di altri continenti. Su questo occorrono chiarezza e decisione. Che il ministro ascolti soprattutto un grande sindacato, capace di garantire, con le sue sedi capillarmente diffuse sul territorio, un forte consenso elettorale, sarà conveniente per vincere le elezioni, non per rafforzare il settore. Ascolti tutto il mondo agricolo, quello delle OP, dei grandi consorzi, delle cooperative. Ascolti la diversità di opinioni che è la realtà del mondo agricolo. Vada fino in fondo alla questione del rapporto con la grande distribuzione organizzata, tanto fondamentale quanto dirimente. Allora, forse, i trattori torneranno in campagna.

Paolo Inglese - Ordinario di Arboricoltura Università degli Studi di Palermo

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