Da Pescara piombano le immagini di due minorenni feroci come nazisti e di una vittima inerme che si rannicchiava mentre veniva massacrata. Ma da Pescara filtra anche l’incubo dei loro genitori. In tanti li accusano, con le facili certezze del divano. Ma non c’è bisogno. Come potranno mai tornare alla normalità? “Ho fiducia nella giustizia e prego”, dice la madre avvocata di uno dei due accusati. “Non mi assolvo”, dice il colonnello dei carabinieri padre di uno dei ragazzi del gruppo.

“Vi chiedo di mettervi nei miei panni. Gli chiedevo dove andasse e cosa facesse, chi erano i suoi amici, e mi diceva ‘esco con il mio amico, figlio di un avvocato’, oppure ‘mi vedo con quell’altro, figlio di un tuo collega’. Avrei dovuto indagare più a fondo? Avrei dovuto non accontentarmi?”. Se qualcuno sa rispondergli, alzi la mano. Invece di accanirci sui particolari morbosi del crimine, sarebbe importante scavare nei meandri molto meno spettacolari del dolore di chi resta, delle sue colpe e dell’imponderabile, che quasi sempre le colpe le sovrasta e le scolorisce. Se tuo figlio minorenne massacra un coetaneo con l’aiuto di un amico, e lo fa con un semplice pretesto perché il suo impeto è solo quello di colpire, distruggere, fare male, alla sbarra finisce tutta la tua vita.

Di colpo, tutto si contorce: la tua storia, i tuoi valori e il tuo modo di essere padre o madre. Ricorderai, è inevitabile, le smorfie di lui quando era bambino, i sorrisi e le lacrime, la prima comunione e le gite al lago. E poi quel giorno in cui quel piccolo che diventava ragazzo improvvisamente urlò, perse il controllo, e negli occhi gli vedesti righe di sangue che ti paralizzarono. Ma poi la tua mente rimosse tutto. Già, noi non vediamo facilmente ciò che ci sottrae al giardino fiorito della quotidianità. Siamo noi, certe volte, i veri bambini. Quello dei genitori è il lato del prisma meno illuminato. “Ai nostri figli dovremmo insegnare a non uccidere e non solo a lavarsi le mani”, dice la psicologa.

Giudizi così perfetti da essere superflui, persino tautologici. Se non vogliamo che non si innamorino del male, insegniamo loro ad amare il bene. Facile, no? Poi però c’è un mini-branco di ragazzini in bermuda, t-shirt e sneaker che infila un orrendo omicidio dentro due chiacchiere, una canna e un sushi. Che insulta la vittima mentre muore e poi va in spiaggia a gonfiare il petto. Perché neppure sa cosa siano il dolore degli altri e l’empatia. Massimo Gramellini afferma che gli psicologi e i fustigatori di costumi – i social, le droghe, il trauma da pandemia – sbagliano mira. Gli adolescenti sono da sempre il regno del mistero e del conflitto. E nessuno può impedire che a volte gli squilibri del crescere possano tracimare nella violenza. In effetti, nel giudizio su questi fatti pesa una sorta di abbaglio collettivo che è frutto di un’ipersemplificazione da talk show: l’illusione che possa esistere un mondo perfetto, immune da ogni deviazione.

Ma forse c’è qualcos’altro. L’anomalia di questa epoca non è tanto nell’episodio che sfugge ad ogni controllo e ad ogni previsione, ma nell’abisso che c’è fra questi fatti e i nuovi modi di concepire il ruolo dei genitori. Veniamo da epoche, magistralmente raccontate in libri e film, in cui i giovani maschi (in tempi ancora segnati dall’apartheid sessista) erano i re della strada, perché è appunto la loro strada che dovevano cercarsi, e dovevano farlo rigorosamente da soli. Un qualsiasi film di Pasolini sulle borgate, ma anche gli squarci della vivacissima borghesia del dopoguerra interpretati da Gassmann o da Sordi, presentano giovani prestissimo emancipati da ogni tutela materna o paterna. Anche le loro biografie reali lo confermano, così dense di sogni intrecciati con la povertà e la fame, di sacrifici duri che però un giorno ti porteranno a diventare Albertone, Totò o Federico Fellini. Polvere di stelle da respirare dopo la polvere dei campi e degli asfalti di periferia.

Oggi i genitori si auto-assegnano il ruolo di balie perenni dei loro pargoli, polemizzano con il docente che li rimprovera, si immergono beati in chat di mamme e di papà, li seguono e li marcano stretti nell’irreale suggestione di proteggerli da tutto. Ma più sembrano attaccati al cammino dei figli, più spesso si rivelano estranei loro pulsioni più profonde. E non si accorgono che hanno fatto tanto per loro, tutto, salvo lasciargli la libertà di farli diventare uomini e donne con i loro mezzi.

Sergio Talamo

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