Lorenzo Castellani insegna storia e istituzioni politiche alla Luiss di Roma. E’ autore di saggi tra i quali “Eminenze grigie, uomini all’ombra del potere”, nel quale descrive l’esperienza di Michel Debray dietro a De Gaulle e il saggio “L’ingranaggio del potere. Il dominio della tecnodemocrazia nella politica dei nostri tempi”, entrambi con Liberi Libri. A lui abbiamo chiesto un’analisi dei fronti elettorali che abbiamo davanti.

Oggi si vota in Uk, tra tre giorni in Francia, a novembre negli Stati Uniti. Il mondo che conoscevamo sta per cambiare per sempre?
«Siamo a un passaggio storico epocale, con paesi importanti che vanno a votare e affrontano situazioni difficili. Ognuno con peculiarità diverse. In Francia, nel Regno Uniti e negli Stati Uniti osserviamo una radicalizzazione delle forze in campo, sia a destra che a sinistra, ma con rapporti di forza diverse».

Qual è la cifra comune?
«Nel Regno Unito una radicalizzazione c’era già stata, con la Brexit e poi con Boris Johnson, i nuovi conservatori più spostati a destra di sempre. Oggi invece il futuro primo ministro è un laburista riformista, blairiano. Mentre in Francia c’è una polarizzazione sulla destra più radicale e la sinistra più estrema. Quindi forti spaccature ma non uniformi: non c’è una tendenza universale, non è che vince ovunque questo o o quel modello, ma prevalgono le divergenze. La cifra comune è che tutti vivono difficoltà interpretative della complessità per la crisi evidente in cui versa l’Occidente, ma con esiti e declinazioni molto diverse paese per paese».

Quella che ha più sorpreso e scioccato è la crisi francese. Con tre divisioni inconciliabili…
«Sì, la Francia è spaccata in modo grave. Con due delle tre frange, la sinistra radicale e l’estrema destra, che danno risposte somiglianti nelle posizioni internazionali e nelle soluzioni economiche. Mentre il troncone centrale è un blocco ormai minoritario e vede Macron e i repubblicani isolati. E’ una sorta di bipolarismo, quello che emerge dal ballottaggio. Una situazione inedita, un vero e proprio referendum sulla Le Pen. Si chiede sostanzialmente se si vuole mandare al governo il Rassemblement National o no.
Se voteranno Sì, li vedremo alla prova, e in Francia si parla già di “mélonization” dell’estrema destra francese, di moderazione atlantista di quel partito fino a oggi rimasto una incognita, che si troverebbe a dover maturare davanti alle esigenze del governo».

E se, come al primo turno, vincesse il No, cioè si confermasse una maggioranza non-lepenista?
«Il frontismo è molto complicato. Non è paragonabile con niente, tantomeno con l’Ulivo che abbiamo avuto in Italia, una alleanza pre-elettorale che siglava un accordo ma poi comunque, alla prova del governo, non funzionava per l’incrocio dei veti interni. Qui l’alleanza pre-elettorale ha funzionato solo per la sinistra, con non poche difficoltà: ricordo che Macron puntava a spaccare la sinistra, e ad arrivare secondo alle elezioni. Non è riuscito in questo intento, ma le lacerazioni profonde nel fronte antilepenista ci sono e basterà poco perché emergano, portando la situazione allo stallo prolungato».

E Macron cos’altro può fare, adesso?
«Intanto vedremo quanta parte del suo elettorato sarà disposto a turarsi il naso. E vedremo se Macron sarà riuscito a rimandare il problema, e per quanto tempo sarà riuscito a spostarlo. In Francia qualcuno inizia a pensare che si potrebbe tornare a votare tra un anno, quando la legge consente di fissare nuove elezioni legislative. E c’è addirittura chi ipotizza che Macron potrebbe lasciare prima del 2027 per investire su un successore in grado di salvare il salvabile e riprendere terreno al centro».

Qualche analista ipotizza che il presidente Macron davanti a un coacervo di partiti che rendono ingovernabile il paese potrebbe chiamare un tecnico. Una ipotesi inedita per Parigi…
«Sì ma se nessuno avesse i numeri per governare davvero, e perdurasse lo stallo alla francese, andarsi a cercare una maggioranza in Parlamento sarà molto difficile. Anche per un tecnico. Se poi iniziamo a sommare Rn con i Repubblicani, ostili al Rassemblement National ma refrattari anche verso Mélenchon, abbiamo una maggioranza di blocco. Si determina una sorta di paralisi. Non ci sarebbe una maggioranza ma due opposizioni l’una contro l’altra. E il supertecnico, che serve come elemento di depoliticizzazione, in uno scenario come quello francese, iper-politicizzato, con estrema destra e sinistra radicale, non verrebbe accettato. Certo, può essere un traghetto provvisorio, ma i francesi hanno bisogno di altro».

Dunque la suggestione del Draghi francese non la vede?
«Guardiamo all’esperienza italiana, perché noi abbiamo vissuto la crisi francese molti anni prima. Il governo tecnico di Mario Monti ha determinato l’esplosione del Movimento Cinque Stelle. Il governo Draghi ha determinato il successo dell’unica forza che stava all’opposizione, Fratelli d’Italia. I governi tecnici possono funzionare sul momento, ma non costruiscono una proposta politica per il dopo. Anzi, hanno sempre minato il consenso di chi li aveva voluti».

Se Macron decidesse comunque di tentare quella carta, ci sarebbero figure di super tecnici pronti, in Francia?
«La Francia è il paese della tecnocrazia, con banchieri centrali influenti, gli Enarchi (chi ha fatto il prestigioso Ena, ndr.) istituzionalmente esperti ci sono, perfino Macron viene da una storia di tecnocrate: nasce come dirigente dell’Ispettorato delle Finanze, poi nelle grandi banche internazionali. Dunque il problema non sarebbe quello di selezionare la figura di sintesi tecnica ma di farlo accettare dalla non-maggioranza che si va prefigurando».

Castex, ad esempio, che era già stato premier tecnico voluto da Macron?
«I nomi già noti, legati alla storia di Macron, oggi non vanno più bene. Un nuovo leader si può trovare, un super tecnico ci potrebbe essere. Ma serve tempo. Cristine Lagarde, di cui si parla, è invece complicata da spostare. E non può essere lei la sintesi politica delle istanze in campo».

Quale potrebbe essere la mossa del cavallo, per Macron?
«Dare l’incarico a un uomo di sinistra e convincere i suoi a sostenerlo. Ma non sarà facile: in una Francia spaccata come quella di oggi, nessuno si fida dell’avversario. E avversari oggi sono tutti».

Il macronismo è in crisi anche da noi. In Italia i riformisti non raggiungono il quorum per il Parlamento europeo…
«Quella casa politica è in crisi ovunque per la sfiducia verso il globalismo in tutto l’Occidente, dove si cercano soluzioni locali a problemi mondiali. Però Macron prende ancora il 20%, Renzi e Calenda non prendono il 4% e sono destinati a scomparire. In Francia quell’esperienza, gestita con sapienza e leadership, è destinata a non scendere sotto il 10%».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.