L'inchiesta e il giallo
Lorenzo Cesa, massacrato e assolto: finiscono nel nulla le accuse di Gratteri
Lorenzo Cesa? «Siamo sicuri al cento per cento che ne uscirà completamente scagionato». È accaduto nei giorni scorsi, con l’archiviazione del gip, e sono passati dieci mesi. E noi lo scrivevamo il 27 gennaio scorso, mentre raccontavamo il blitz del procuratore Gratteri, impegnato in un’operazione di nome “Basso profilo” . Basso lo era sicuramente il profilo. Ma: «Trecento poliziotti, dieci elicotteri per catturare… titoli sui giornali», era stata la sintesi del Riformista. Perché il nome del segretario dell’Udc, indagato per associazione mafiosa, era lo specchietto per le allodole per trasformare una modesta inchiesta locale calabrese in eclatante fatto di politica nazionale. È spesso così, con il procuratore Gratteri. Già in quel periodo si lamentava perché le sue inchieste, sempre gridate nelle conferenze stampa, non riuscivano a conquistare le prime pagine dei quotidiani nazionali. La stampa locale non gli bastava, perché tutta la sua attività giudiziaria era contornata da toni roboanti e gloriosi destini.
Così quel giorno ci era riuscito. Se mettiamo a confronto il trafiletto di tredici righe a pagina 19 del Corriere di domenica scorsa con la notizia dell’archiviazione di Lorenzo Cesa dall’accusa di essere un mafioso con lo stesso quotidiano del 22 gennaio, c’è da arrossire. L’apertura della prima pagina era rafforzata da servizi di cronaca, commenti e una bella intervista al dottor Gratteri. Il quale nello stesso giorno si era concesso anche a Repubblica. Per dire (a reti unificate, si sarebbe detto una volta, perché a lui piace parlare al mondo intero) che «È quello che avevamo visto arrivare vent’anni fa: la ‘ndrangheta che si traveste da imprenditore. E bussa alla politica. E la politica, per lo meno una parte importante di essa, risponde. Aprendo la porta». Parole molto chiare, da cui si deve dedurre che il principale titolare dell’inchiesta credeva veramente (sarebbe gravissimo il contrario) nella responsabilità penale di Lorenzo Cesa. Della sua partecipazione a una cosca mafiosa. Se no, chi sarebbe stato il politico che aveva “aperto la porta” alla ‘ndrangheta?
Certo che, persino per uno come il procuratore Gratteri, che si vanta in continuazione di essere diverso dai suoi colleghi, perché lui non si occupa di politica e non appartiene a nessuna corrente del sindacato delle toghe, il momento sembrava proprio scelto con cura. Che cosa succedeva infatti nello scorso gennaio? Il governo Conte-due era caduto per mano di Italia Viva e l’ex presidente del Consiglio con tutti i suoi amici giallorossi era alla ricerca disperata di voti parlamentari “responsabili” per restare in sella con un Conte-tre. I quattro senatori dell’Udc facevano gola. I telefoni di Cesa squillavano in continuazione. Finché lo squillo non trillò con l’informazione di garanzia che bollava il possibile capo dei “responsabili” come mafioso. Come se ciò non bastasse, erano partiti in quarta Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista a dire che loro con la ‘ndrangheta non volevano aver nulla a che fare. Lo stesso segretario dell’Udc del resto si era affrettato a dimettersi dal suo ruolo.
E Nicola Gratteri? Le sue parole erano state sconcertanti. Prima aveva detto che nella notte aveva saputo che Cesa non poteva aiutare Conte perché era all’opposizione. Poi che lui aveva solo calcolato di non fare il blitz durante le elezioni regionali della Calabria, la cui data però veniva continuamente spostata in avanti. Insomma, era apparso come un gran pasticcione. Uno fuori dal mondo della politica. Però la storia recente ci dice qualcosa di stuzzicante, di particolare. E pone qualche domanda. Come mai un politico accorto ed esperto come Lorenzo Cesa nei giorni scorsi, proprio alla vigilia dell’archiviazione della sua posizione processuale, ha confidato a Bruno Vespa, il quale l’ha riportato nel suo libro (Come Mussolini rovinò l’Italia e come Draghi la sta risanando), di un incontro con uno 007 nei giorni dell’incriminazione? E del fatto che questo agente segreto gli avesse detto che l’indagine sarebbe finita in niente ma che lui avrebbe dovuto comportarsi “con saggezza”? È chiaro che questa storia non può finire così, né sul piano politico né su quello della politica giudiziaria. Perché qui stiamo parlando dell’innocenza di Cesa, ma non dell’innocenza degli inquirenti o dei servizi segreti. Perché molte cose non quadrano fin dall’inizio.
Che dentro la bolla di sapone dei trecento poliziotti e dieci elicotteri impegnati nel blitz di quel 21 gennaio non ci fosse che aria lo si era capito subito anche dal modesto uso della custodia cautelare (13 indagati in carcere, 35 ai domiciliari, poi ancora ridimensionati in obbligo di dimora dal tribunale del riesame), giustificata sostanzialmente dal reato di associazione mafiosa. Su cui la vera notizia è che, nella sentenza della prima branca del processo con rito abbreviato di un mese fa, l’articolo 416 bis del codice penale è sparito nei confronti di 19 imputati su 21. Quindi chi sono i boss che hanno bussato alla porta della politica e chi l’ha aperta? Il segretario dell’Udc era stato coinvolto nell’inchiesta “Basso profilo” per via di un pranzo cui aveva partecipato a Roma al ristorante “Tullio” negli ultimi mesi del 2017, quando lui era parlamentare europeo. Era stato coinvolto dal referente del suo partito, l’Udc, in Calabria, Francesco Talarico, assessore regionale, che voleva candidarsi alle elezioni politiche del 2018, e che era appoggiato da un consigliere comunale di Reggio, Tommaso Brutto, dal figlio Saverio e da un imprenditore di nome Antonio Gallo.
Il punto debole dell’inchiesta era ed è che, se pure nelle carte si trovano intercettazioni tra queste persone nei giorni precedenti, non c’è quella che riporti la conversazione tra i cinque al famoso pranzo. Per un motivo molto semplice, che viene spiegato dallo stesso dottor Gratteri. Cesa era parlamentare europeo, quindi il trojan inserito nel cellulare di Brutto, venne spento. Quindi non si sa di che cosa i commensali abbiano parlato. Dalle conversazioni precedenti si intuisce che l’assessore Talarico intendesse rafforzare la propria posizione di candidato (resterò fuori dal Parlamento per soli 1.500 voti) agli occhi dei propri sostenitori con la presentazione di un personaggio importante come l’onorevole Cesa. Del resto, le richieste dei tre erano molto modeste, e riguardavano posticini di lavoro nell’ambito istituzionale. Nelle carte dell’inchiesta si parla della speranza di partecipazione a gare d’appalto per l’imprenditore, ma in modo molto generico e non confermato.
Che il nome di Lorenzo Cesa fosse utile solo ai titoli di giornale e che la sua posizione sarebbe stata archiviata lo abbiamo detto subito e lo ripetiamo. Resta da capire –oltre al fatto che una persona perbene è stata ingiustamente indagata per mesi come appartenente a cosche mafiose- se il tutto sia da ricondurre solo alla vanità di qualche inquirente. O se invece, come avrebbe lasciato capire il signor “barbafinta” che andò a trovare il segretario dell’Udc proprio mentre lui era sospettato di essere un mafioso, ci fosse dell’altro. Di molto politico, ma anche di molto inquietante. Anche perché il dottor Gratteri è candidato a diventare nei prossimi mesi il capo nazionale dell’antimafia.
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