La letteratura di Louis-Ferdinande Céline si svolge tutta “dentro”. Dentro la testa, dentro le viscere. Non sa guardare “fuori”, questo gigante che narra con un francese a scatti, nervoso, una lingua che viene anch’essa da “dentro”, non levigata come quella dei classici, per “raccontare” i suoi personaggi, marionette impazzite in un mondo animalesco.

Si, Céline è un gigante del Novecento che si è scagliato contro il mondo voltando la pagina della scrittura e che ha distrutto la memoria («Era una bolgia, la memoria»), il contrario di Proust che passò tutta la vita a tentare di ricostruirla: «È una carogna il passato, sempre ubriaco di smemoratezza, un vecchio marpione che ha sputato su tutte le tue storie». Per quanto fosse un personaggio odioso, ferocemente antisemita fino all’approdo nazista (perché tutto l’odio del mondo alla fine confluisce nell’olio per l’ebreo), il dottor Destouches (il suo vero nome), scrittore furente fino alla bestialità – la bestialità dell’uomo, la bestialità del suo tempo di guerra – a sessant’anni dalla morte resta come un grandioso punto interrogativo della letteratura del Novecento, il secolo della guerra.

E “Guerra”, appunto, è il breve romanzo probabilmente scritto nel 1934 ritrovato dopo decenni e varie peripezie diventato subito un caso letterario in Francia e adesso pubblicato da Adelphi grazie alla non facile impresa di Ottavio Fatica che lo ha tradotto. È un distillato, “Guerra”, di ciò che il lettore céliniano ha già abbondantemente affrontato con la grande opera di Céline, il Voyage au bout de la nuit (e per chi non la conosce questa è un’ottima tappa di avvicinamento), raccontando appunto «lo scoppio della guerra nella testa» del protagonista Ferdinand (lo stesso nome dell’eroe del Voyage) durante quella Prima Guerra mondiale che vide lo stesso Céline in trincea a un certo punto, il 27 ottobre 1914, ferito gravemente – e del dolore alla testa si lamentò per tutta la vita.

Ferdinand-Céline è un fantasma che si aggira nei gironi infernali di una Francia desertificata ove rimbomba lontano il rumore di un cannone, si cura in modo parossistico in una specie di ospedale in una cittadina informe tra uomini mezzi matti e donne-schiave. Ferdinand è avviluppato dentro un turbinìo di sensazioni da proto-eroinomane e di assenza totale di umanità («Io all’umanità non devo niente»), come uno scarafaggio emerso in superficie dalla fossa della Storia tra altri personaggi-insetti uno peggiore dell’altro, tranne forse il camarade Bébert che poi farà una brutta fine, con le donne di Céline che sono animali come animali sono gli uomini, una assurda “parità” al ribasso della dignità.

Il racconto è dunque un non-racconto, come in Beckett, ma la prosa violenta e asimmetrica di Céline non è intellettualistica, viene da “dentro”, è autenticamente carne: ed è senza dubbio letteratura. Solo in un passaggio anch’egli evoca la grande prosa francese: «Lontano, lontano c’erano sempre il sole e gli alberi, tra poco arrivava l’estate (…) È fragile il sole del Nord. A sinistra scorreva il canale addormentato sotto i pioppi pieni di vento. Se ne andava a mormorare quelle cose laggiù fino alle colline e poi filava dritto fino al cielo che lo proseguiva in azzurro prima delle più grandi delle tre ciminiere sulla linea dell’orizzonte».

Ma è solo una brevissima pausa bucolica nell’inferno di sangue, odio, corpi e nefandezze, tutto scarnificato nelle miniature di una scrittura rapidissima ed essenzialmente infame, senza misericordia e senza sentimento con, forse, una apertura sul futuro quando alla fine Ferdinand lascia la Francia per l’Inghilterra. Però tutto tende a confluire nel mistero, nella mancanza di un filo, nella morte della ragione. Che per Céline non è mai nata davvero, su questa terra infame…