L’esecuzione a Mosca del generale Igor Kirillov, comandante della divisione “armi nucleari, chimiche e biologiche” eseguita dall’intelligence ucraina con un monopattino imbottito di esplosivo è un doppio messaggio per il Cremlino: “non soltanto possiamo colpire dove vogliamo, ma anche chi vogliamo”. Kirillov era già stato denunciato pubblicamente in Ucraina come un macellaio che faceva usare armi proibite chimiche e biologiche sia contro i militari combattenti che contro la popolazione civile. Dire che si è trattato di un eccellente colpo e senza altre vittime accessorie, se non l’assistente del generale, è poco. Questa azione non mostra spavalderia, ma precisione, e annuncia l’intenzione ucraina di combattere e di attaccare il nemico a casa sua. A chi è destinato il messaggio? Certamente a Vladimir Putin, ma anche agli americani.

Il prossimo 20 gennaio 2025 Donald Trump entrerà alla Casa Bianca ed ha sempre detto che da quel giorno intende aprire un tavolo negoziale per metter fine alla guerra in Ucraina. E ha annunciato l’ingresso nel suo governo del generale Keith Kellogg – veterano combattente in Vietnam e in Iraq – quale responsabile della posizione americana in senso tecnicamente militare. E ieri l’altro Kellogg ha finalmente parlato: “Apriremo un tavolo negoziale sull’Ucraina e inviteremo sia Zelensky che Putin. Se il Presidente ucraino non si presenterà, noi americani taglieremo all’istante tutte le forniture di armi e denaro all’Ucraina. Se fosse Putin a non presentarsi, noi raddoppieremmo le armi e gli investimenti in Ucraina”.

Zelensky ha già assicurato a Trump, durante il breve incontro a Parigi per la riapertura della cattedrale di Notre Dame, che lui ci sarà, e ha fatto sapere di essere pronto a riconoscere – almeno per ottenere il cessate il fuoco e una linea di separazione fra le parti – di essere disposto a concessioni territoriali, salvo cercare di riaverle nel successivo round diplomatico. L’uccisione del generale Kirillov, dunque, significa: l’Ucraina è forte quanto basta per affrontare in condizioni di parità l’inizio di trattative, ma nessuno si aspetti da Kyiv un atteggiamento remissivo: siamo in grado di colpire le vostre basi interne con missili a lunga gittata e nessun membro della casa militare russa si può sentire al sicuro. Inoltre, gli ucraini stanno ancora difendendo la loro testa di ponte in Russia dell’oblast di Kursk.

Il fattore Kursk

Putin contava e ancora conta con l’aiuto del contingente nordcoreano di sloggiare gli ucraini dal sacro suolo della patria e di farlo prima del 20 gennaio, ma la grande operazione di annientamento dei migliori corpi speciali ucraini in Russia, annunciata più volte con poche operazioni nordcoreane, non è mai partita. E questo “fattore Kursk” pesa molto sul piatto della bilancia per due motivi. Il primo è la natura della merce di scambio perché i russi sarebbero costretti a concedere molto pur di riavere un pezzo di Russia occupato dal 6 agosto scorso. Il secondo motivo è che in Russia serpeggia un malumore nazionalista proprio a causa della inefficacia nel ributtare fuori dai confini gli ucraini trincerati a Kursk. Per quanto a noi possa sembrare sgradevole è un dato di fatto che la maggior parte della popolazione russa, salvo poche decine di migliaia di dissidenti sia a favore della guerra e reclami la vittoria. I social mostrano segni e danni del diffuso vittimismo nazionalista e l’accusa al Cremlino di non saper difendere la patria.

L’incubo crollo dell’Impero

Questo per quanto riguarda la Russia bianca, quella che immaginiamo come l’intera Russia, che però per sette decimi è altrove. E cioè in Asia. E in quella Russia asiatica gli umori sono molto meno patriottici di quelli percepiti a Mosca e a San Pietroburgo. Il fantasma di cui ormai tutti parlano apertamente è il crollo dell’impero, l’incubo di Putin: un crollo che potrebbe generare più di cento nazionalità, bandiere, lingue, capitali, uniformi, usi e costumi finora costretti alla convivenza soltanto dalla forza. Putin non ha tutti i torti, anzi, nessuno quando sostiene che esiste un grande progetto per dissolvere la Russia frammentarlo e distruggerla. Il progetto è attivo, ma sponsorizzato più dai francesi e dai cinesi che non dimenticano i riferimenti allo scontro armato lungo le rive del fiume Ussuri, quando la Cina era decisa a prendersi con la forza la terra al di là del fiume.

La prima esposizione pubblica del piano di smembramento avvenne subito dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina quando emerse un Forum delle Nazioni Libere della post-Russia, un’organizzazione che poi è andata radicandosi negli Stati baltici e in Polonia con progetti che non danno per scontato l’esito della trattativa per mettere fine alla guerra e che non vedono di buon occhio l’arrivo di una pace immediata, perché contano sul logoramento delle forze armate di Putin nel mattatoio ucraino. Questi due versanti di emozioni russe, quella nazionalista e quella del lento sfacelo, sono due versioni dello stesso tormento di Putin.

Chi ha la pazienza di seguire le dichiarazioni pubbliche o le conferenze stampa di Putin in queste settimane si sarà accorto del motivo ossessivo che guida la sua visione della guerra e del mondo: forze nemiche guidate dagli americani (che contano di rifarsi di tutte le spese controllando i minerali e le terre rare ucraine) cercano di distruggere il più grande paese della Terra. In realtà, chi è più ostile allo smembramento della Russia è proprio la tradizione di politica estera del Dipartimento di Stato americano che conserva la memoria dell’orrore che seguì alla fine della Prima guerra mondiale, la caduta dei due più grandi imperi multietnici: quello austroungarico e quello ottomano.
Le due disintegrazioni ancora agiscono sulla scena del mondo gli americani sanno che ogni disintegrazione comporterà un alto prezzo. Ma si fa anche strada negli Stati Uniti una scuola di pensiero favorevole alla disintegrazione russa, attraverso una direzione americana in grado di calcolare sia di risolvere problemi che nel 1920 a Versailles non era ancora possibile immaginare.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.