Se un magistrato cerca di condizionare le decisioni del Consiglio superiore della magistratura in materia di nomine ed incarichi, va tutto bene. Anzi, benissimo. Se invece fornisce ad un collega una banale informazione sulla stato di un procedimento di separazione, informazione peraltro accessibile a chiunque consultando il portale telematico, viene rimosso con ignomina dall’incarico. “Il Csm più squalificato della storia repubblicana”, come disse qualche mese addietro Matteo Renzi, non finisce mai di stupire.

Con una motivazione quanto mai “suggestiva”, il Plenum di Palazzo dei Marescialli ha sollevato l’altro giorno dall’incarico Luciana Sangiovanni, la presidente delle diciottesima sezione del tribunale di Roma, competente in materia di protezione internazionale.
Questa sezione, a detta di tutti gli operatori del settore, è la più efficiente ed organizzata d’Italia. Oltre che con la Questura e la Prefettura, la sezione ha infatti in essere numerosi protocolli con i vari Enti anti-tratta e con l’Alto commissariato della nazione unite per i rifugiati al fine anche di assicurare ai migranti adeguate condizioni di alloggio, vitto e assistenza sanitaria e, successivamente, la prosecuzione dell’assistenza e dell’integrazione sociale.

Il modello organizzativo della sezione, che riesce ad evadere le pratiche dei richiedenti asilo in tempi molto rapidi, è portato come riferimento dalla Scuola superiore della magistratura per i corsi di formazione destinati ai magistrati destinati a tale funzione. Bene, fatta questa premessa perché il Csm ha cacciato la presidente Sangiovanni? Per la risposta bisogna tornare al 2017, per la precisione al mese di novembre. All’epoca la magistrata si occupava di famiglia e aveva ricevuto una richiesta tramite whatsapp di informazioni da parte di Luca Palamara, in quel momento componente del Csm, circa lo stato della separazione di un suo amico, Goffredo Ceglia Manfredi. “Vorrebbe proporre un accordo”, scrive Palamara, aggiungendo: “Come mai tutto questo tempo?”, in quanto la pratica era pendente da mesi.
“La collega è un pochino in difficoltà … se vuoi ne parliamo a voce”, risponde la magistrata.

Passa qualche settimana e Palamara scrive: “Ciao Luciana quando puoi ti ricordi?”. E ancora: “Ciao Luciana quando puoi mi fai sapere se ci sono novità? Grazie un abbraccio”. A tali richieste la Sangiovanni rispondeva che “la collega è in ferie la rivedo prossima settimana” e poi di non preoccuparsi (“ho a mente la questione”). Dopo poco la pratica veniva allora definita: “Deposita oggi – scrive la magistrata – quindi per la pubblicazione aspetta qlc giorno”. “Ottimo”, la risposta di Palamara. Il Csm, ricevute le chat, aveva fatto gli accertamenti del caso, interrogando il giudice relatore della sentenza che aveva smentito qualsiasi possibile interferenza da parte della magistrata.

Nonostante ciò, per il Plenum del Csm la presidente Sangiovanni è stata etichettata come una “reiterata dispensatrice di informazioni e di sollecitatrice verso altri magistrati”, anche se non aveva posto in essere nessuna sollecitazione o scambio di informazioni, trattandosi di dati accessibili a tutti i cittadini. Durissimo il togato progressista Giuseppe Cascini secondo il quale un magistrato che chiede una informazione automaticamente condiziona il collega nella decisione e quindi ne lede la sua credibilità. Di diverso avviso Nino Di Matteo secondo cui “se ci fermassimo alla credibilità, questo Csm doveva essere sciolto da tempo”. Di Matteo ha poi citato alcuni casi di colleghi “salvati” dalla scure dell’incompatibilità. Come Donatella Ferranti e Anna Canepa.

Ma allora perché il pugno duro? E si torna sempre alla Procura di Perugia, dove tutto ha avuto inizio e dove Palamara è imputato per varie corruzioni. Si da il caso, infatti, che Leonardo Ceglia Manfredi, fratello di Goffredo, abbia poi pagato a Palamara un soggiorno a Capri. Tale pagamento sarebbe il prezzo della corruzione per le informazioni, che come si è visto chiunque poteva avere, ricevute dall’ex presidente dell’Anm. Aver cacciato la dottoressa Sangiovanni, totalmente all’insaputa di cosa abbia poi fatto Palamara con il suo amico, contribuirebbe a “rafforzare” l’impianto accusatorio perugino. E dal momento che il procedimento di Perugia è sempre più traballante, ad iniziare dalle modalità con cui sono state effettuate le intercettazioni con il trojan, tutto può servire alla causa. Anche cacciare un magistrato stimato che fa bene il proprio lavoro.