L'intervista
Luciano Violante: «Il 25 aprile unisca tutta l’Italia, basta con le divisioni»
L’ex presidente della Camera: «È una data che deve appartenere a ognuno di noi, nessuno dovrebbe averne un’idea proprietaria»
È una questione di prospettiva: uscire dallo schema binario per cui il 25 aprile è una «questione proprietaria», di una parte o dell’altra, con ragioni opposte, ovviamente, ed entrare in una dimensione storica-collettiva per cui «la Liberazione, il 2 giugno e la firma della Carta Costituzionale sono momenti fondativi del Nation building», la costruzione del Paese.
Così Luciano Violante, ex magistrato e presidente della Camera, una vita a sinistra, dal Pci al Pd, propone di superare l’annoso, annuale e per certi versi «inattuale» scontro sul 25 aprile. «Bisogna impegnarsi – è l’invito – argomentando, spiegando, perché questa sia la festa per tutti gli italiani. Non serve accusare. Fare politica vuol dire spostare forze».
Presidente Violante, proviamo a spiegare a un ragazzo o a una ragazza di 18 anni perché deve, dovrebbe festeggiare il 25 aprile?
«Perché la liberazione dal nazifascismo avviò il Nation building, il processo politico attraverso il quale un popolo costruì la propria Nazione. Cittadini comuni, settori delle istituzioni, partiti, settori della società, del mondo del lavoro e della produzione lottarono insieme per far prevalere alcuni valori, il primo dei quali è la libertà. Le Nazioni, a volte, nascono dalle guerre civili; così è stato anche per gli Stati Uniti. È drammatico ma è accaduto. Il 25 aprile, il 2 giugno quando gli italiani scelsero la Repubblica, il 22 dicembre 1947 quando venne approvata la Costituzione, il 18 aprile 1948 quando l’Italia scelse di stare nel mondo occidentale piuttosto che nel mondo sovietico: costituiscono i diversi passaggi del processo di costruzione della Nazione iniziato il 25 aprile».
Più storia o cronaca?
«Questa è grande storia: poi, all’interno, c’è la cronaca».
Parlare oggi, ogni anno, in questi giorni di liberazione dal nazifascismo per qualcuno suona inattuale. Si sente dire, specie da una parte politica: «Che noia, ancora il 25 aprile. Altri sono i problemi del Paese». Errore da matita blu o legittimo pragmatismo rispetto alla storia?
«L’unità della Nazione nella lotta per la libertà è la premessa per qualunque azione politica democratica. Ma nessuno dovrebbe avere un’idea proprietaria del 25 aprile; è una data che deve appartenere a tutti».
Però poi ci sono le storie, i racconti di famiglia, i conti mai fatti o fatti solo in parte con la storia. Alla fine, ci si ritrova ancora da una parte o dall’altra.
«Cascami di antiche nostalgie. Ci sono storie diverse, molte famiglie hanno avuto drammatiche lacerazioni, che vanno rispettate. Ma nessuno deve avere dubbi da che parte stava la libertà e da che parte stava la tirannia».
Il presidente Mattarella va oggi a Civitella, in provincia di Arezzo, dove il 29 giugno 1944 furino trucidati 240 civili. C’era la messa quel giorno quando i reparti delle SS, guidati dai fascisti locali, entrarono nella chiesa di Santa Maria Assunta e fecero fuoco sui fedeli a cominciare dal parroco.
«Il Capo dello Stato che rappresenta l’unità nazionale rinnova quel percorso di costruzione della Nazione di cui si parlavo all’inizio. Ricordare è necessario. L’alternativa è il subdolo oblio».
Secondo lei il governo in carica ha chiarito la sua posizione rispetto al nazifascismo e soprattutto rispetto al fascismo, che fu un fenomeno tutto italiano e si rese colpevole di mostruose delazioni indicando, tra le altre cose, dove andare a prendere le persone da fucilare?
«Oggi parliamo del 25 aprile, come festa dell’Italia e degli italiani. Non sono disponibile a trasformare questa ricorrenza in un’occasione di polemica. Cerchiamo di ragionare al di fuori della polemica quotidiana. Il 25 aprile lo merita».
Forse sarebbe servito fare i conti con la storia. Anche se postuma. Nel 1994 quando Franco Giustolisi, giornalista de L’Espresso, trovò il cosiddetto «armadio della vergogna» con i fascicoli insabbiati delle stragi nazifasciste, anche la Commissione parlamentare (2001) dette la precedenza alla «ragion di stato» così come era scritto nel carteggio tra l’allora ministro Martino (Difesa) e Taviani (esteri).
«Anche a noi furono richieste le estradizioni di ufficiali dalla Grecia e dalla Jugoslavia, accusati di crimini di guerra. Non abbiamo dato seguito. Nel secondo dopoguerra prevalse l’idea di non dividere il Paese. L’amnistia di Togliatti serviva a questo: l’invito dello stesso Togliatti, dopo l’attentato, a mettere da parte ogni proposito insurrezionale serviva a questo, e così il rifiuto di De Gasperi di ricontare i voti dopo il fallimento della legge truffa per soli 51.000 voti con più di un milione di schede nulle, bianche o contestate. Non dimentichiamo che l’alta burocrazia italiana negli anni Cinquanta era per lo più di formazione fascista, né possiamo dimenticare le scandalose applicazioni dell’amnistia Togliatti contro i partigiani da parte della Corte di Cassazione. La classe dirigente, tutta la classe dirigente, aveva l’obbiettivo di tenere insieme il Paese e non dividerlo, cosa difficile in un paese che usciva dal fascismo e aveva il più forte partito comunista dell’Occidente. Furono pagati dei prezzi».
Cosa ci insegna il caso Scurati, la censura subìta e il successivo attacco personale di cui è stato vittima?
«Che i caporali spesso rovinano i generali».
Capisco, a noi decidere chi sono i caporali che comunque vengono scelti dai generali. Qual è il rapporto tra il 25 aprile e la Carta costituzionale che anche le destre mettono come faro guida del loro agire quotidiano?
«Il 25 aprile, 2 giugno e la costituzione, il 1948, ovvero la Liberazione, la scelta della Repubblica e la firma della Carta costituzionale, la scelta occidentale: tutto questo è Nation building. Ciascuna scelta è figlia dell’altra».
Certe amministrazioni di destra spingono le manifestazioni sul 25 aprile in piazze secondarie, orari marginali. E un ministro, che è anche vicepremier, passa il 25 aprile a presentare il suo libro…
«Bisogna impegnarsi, argomentando, spiegando, perché questa sia la festa per tutti gli italiani. Non serve accusare. Fare politica vuol dire spostare forze».
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