Luigi Di Maio: forte con i deboli, debole con i forti

Chissà se Luigi Di Maio, ora “ministro dei buoni rapporti con la Cina”, riuscirà ad intendere quanto abbiamo scritto e quanto sta accadendo in giro. Chissà se Matteo Salvini a pochi giorni dalla Pasqua, evidentemente in cerca di santità, riuscirà a comprendere che i rosari sono cose da preti. Chissà se capirà che l’intimità di una preghiera non si baratta per pochi denari. Il primo con la sua carica dovrebbe governare, il secondo “leader” del partito d’opposizione dovrebbe attivarsi per proporre concrete iniziative. In questi giorni, l’acritica ed incondizionata propaganda pro-Cina di Di Maio ha nuovamente mostrato alcuni momenti, di gioia per lui, di sconforto per noi e per tutti gli italiani. La pelosa, scontata e demagogica propaganda del Partito comunista cinese non ci interessa. Alla Farnesina dovrebbero sapere che politicamente chi dona ottiene molti più vantaggi di chi riceve.

Chiamatelo rapporto asimmetrico, soft power, imbonimento, sottomissione o gratitudine, comunque il rimbalzo in Patria in termini di consensi dei doni è straordinariamente efficace. L’amplificazione e la diffusione delle missioni sanitarie nella patria del donante generano un effetto politico di gran lunga superiore dello sforzo legato all’invio. In poche parole, in cambio di poco, stiamo regalando occasioni di rafforzamento della politica interna cinese. Inoltre, nel ricordo del ricevente del dono s’insinua l’idea dell’avere contratto un debito. Ora che la Cina ha inviato in Italia medici ed infermieri abbiamo contratto un debito, magari da soddisfare concedendo qualche libertà nell’adozione del sistema 5G? Il nostro ministro degli Esteri ha l’obbligo di difendere gli italiani e l’Italia, dovrebbe incominciare a considerare seriamente la possibilità d’intentare una causa contro la Cina. È il diritto internazionale che lo prevede.

È il Regolamento Sanitario Internazionale (International Health Regulation-IHR), il quale prevede (vedi articolo sei): «Ogni Stato parte deve notificare alla Organizzazione mondiale della sanità entro ventiquattro ore dalla valutazione delle informazioni relative alla saluta pubblica tutti gli eventi che possono costituire all’interno del proprio territorio un’emergenza di sanità pubblica di rilevanza nazionale». La Cina aveva l’obbligo entro ventiquattr’ore dall’insorgere del Coronavirus di notificare la cosa all’Oms. Che fine ha fatto il giustizialismo pentastellato? La vostra ghigliottina è sempre pronta a decapitare la testa dei deboli. L’impalcato della vostra forca è sempre lucido e oliato. E con i forti?

Uno studio inglese di quaranta pagine redatto dal think tank di Londra, Henry Jackson Society la pensa come noi: il rapporto «afferma che la mancata adeguata comunicazione delle informazioni all’Oms hanno violato gli articoli 6 e 7 del Regolamento sanitario internazionale, un trattato di cui la Cina è firmataria e legalmente obbligata a mantenere. Queste violazioni hanno permesso all’epidemia di diffondersi rapidamente fuori Wuhan, il suo luogo di origine».

E continua «La Cina ha fornito all’Oms informazioni errate sul numero di infezioni tra il 2 gennaio 2020 e l’11 gennaio 2020, in violazione degli articoli 6 e 7. I verbali del gruppo di consulenza scientifica del Regno Unito sulle minacce virali nuove ed emergenti registrano come la mancanza di informazioni abbia ritardato la risposta al virus inclusa la mancanza di screening dei viaggi, secondo uno schema del rapporto. Uno studio dell’Università di Southampton ha precedentemente scoperto che, se tre settimane prima fossero state introdotte severe misure di quarantena, la diffusione della malattia si sarebbe ridotta del 95% circa». Così per circa quaranta pagine.

Secondo quanto ieri ha riportato l’emittente televisiva Foxnews: «Prima che il virus colpisse l’Europa, l’Italia ha inviato tonnellate di Dpi in Cina per aiutare la Cina a proteggere la propria popolazione. La Cina ha quindi rispedito i Dpi italiani in Italia, alcuni, nemmeno tutti … e li ha accusati di questo -, ha detto a The Spectator un alto funzionario dell’amministrazione Trump». C’è dell’altro. Vediamo un altro termine anglosassone: reshoring, agevolare il rientro in patria delle aziende che hanno delocalizzato le produzioni. Perché il Ministro, così attento al benessere del Paese, non pensa ad una seria politica economica-industriale che premia le imprese italiane che decidono di riportare in patria le produzioni? Una buona politica di reshoring crea immediatamente occupazione e sviluppo.

Naturalmente gli imprenditori non sono fessi: se decidono di concentrare le produzioni vogliono qualcosa in cambio. Agevolazioni fiscali? La creazione di zone economiche speciali dedicate? Una corsia preferenziale per la sburocratizzazione degli iter procedurali che ingarbugliano e inviluppano ogni tipo d’iniziativa imprenditoriale? È il momento per Di Maio di dimostrare la sua “attenta” politica ai bisogni del nostro martoriato Paese.