Luigi Einaudi, di cui sabato prossimo ricorre il sessantesimo anniversario della morte, fu il primo presidente effettivo della Repubblica Italiana, pur avendo votato per la monarchia nel referendum del 1946. Anche Croce, l’altro grande padre del liberalismo italiano, aveva fatto lo stesso, ma per motivi diversi: mentre il filosofo napoletano era un uomo del Risorgimento, e quindi il re per lui rappresentava la Patria e l’unità e indipendenza (nonché la libertà) della nazione; nell’economista piemontese rifulgeva l’esempio della monarchia costituzionale inglese, con le sue libertà e i suoi usi e costumi, con l’ideale di una vita pubblica sobria e misurata.

Era il più anglofilo dei politici, degli economisti e dei giornalisti italiani (fu per tanti anni corrispondente dall’Italia per l’Economist). E ciò forse spiega anche la lunga discussione che sul liberalismo ebbe con Croce: mentre l’uno rimase sempre attaccato al dato reale, concreto, effettuale della libertà; l’altro cercava di essa sempre più, con il passare degli anni, un concetto speculativo, trascendentale, meta-fisico nel senso buono del termine (metapolitico egli diceva). Due strade diverse che spesso convergevano nei risultati, e se non nei risultati almeno nell’amicizia e nella stima reciproca che fu la cifra del loro rapporto. Quando il regime fascista, su iniziativa di Giovanni Gentile, chiese ai professori universitari il giuramento di fedeltà, nel 1931, Einaudi, perplesso e lacerato sul da farsi, prese un treno e andò a Napoli a chieder consiglio a Croce, che professore non era. E costui lo invitò a firmare: il regime aveva un consenso così forte nel Paese, in quel momento, che fare l’eroe e il martire non conveniva; meglio lavorare sulla formazione e la coscienza dei giovani e preparare il terreno alla futura “riscossa”.

Come giornalista, Einaudi, che era nato nel 1874, aveva iniziato a La Stampa di Torino, ove si era segnalato per alcune inchieste sociali e per aver seguito le lotte operaie di fine secolo, per poi passare al Corriere della sera di Luigi Albertini, in cui poté esercitare ciò che meglio sapeva fare: chiarire a un largo pubblico le più complesse teorie economiche (era professore di Scienza delle Finanze a Torino); svolgere una funzione di “moralista”, nel senso classico e positivo del termine (non a caso i suoi editoriali furono poi raccolti, nel secondo dopoguerra, col titolo di Prediche inutili). A cavallo dei due secoli, Einaudi collaborò anche alla Critica sociale di Filippo Turati, ove perorò le sue idee sul libero mercato, quasi a suggello di quel che poteva essere il socialismo italiano se non si fosse poi stretto nella morsa del marxismo terzo internazionalista.

Coerentemente antimarxista, da liberale egli apprezzò il ruolo di emancipazione e crescita civile e morale compiuto dal movimento operaio. Al socialismo dottrinario e ideologico, egli oppose «il socialismo sentimento, quello che ha fatto alzare la testa agli operai del biellese e del porto di Genova, e li ha persuasi a stringere la mano ai fratelli di lavoro, a pensare, a discutere, a leggere». Questo socialismo, aggiunse, «fu una cosa grande, la quale non è passata senza frutto nella storia d’Italia». Einaudi oggi sarebbe stato un feroce critico dei populismi ai quali avrebbe opposto il suo ideale epistocratico, ben formulato nell’espressione: “conoscere per deliberare”. La parte più interessante e vitale del suo pensiero però a me sembra quella che lega in modo essenziale il liberalismo all’idea di conflitto. Contro gli ideali perfezionistici e quietisti in cui a volte sembrano indulgere gli stessi liberali (per non dire i liberisti dottrinari), egli, sulla scia dell’amato John Stuart Mill, mostrò come solo attraverso il confronto, regolato ma anche aspro, cioè attraverso la competizione (che in una società non deve essere solo economica), è possibile crescere individualmente e socialmente.

La bellezza della lotta era significativamente il titolo che fu dato a una sua raccolta di saggi pubblicata nelle edizioni del suo vecchio allievo universitario Piero Gobetti. «Il liberalismo – scrive Einaudi – non esiste come entità a se stante da realizzare, ma solo come sempre cangiante lotta per conquistare nuovi spazi di libertà». Questa lotta avviene non solo fra gli uomini ma anche internamente a ciascun individuo. Di qui «lo scetticismo invincibile, anzi quasi la ripugnanza fisica, per le provvidenze che vengono dal di fuori, con regolamenti, col collettivismo, col paternalismo, con l’intermediazione degli sfaccendati politici pronti a risolvere i conflitti con l’arbitrato, con la competenza, con la divisione del tanto a metà; e la simpatia viva per gli sforzi di coloro i quali vogliono elevarsi da sé, in questo sforzo lottano, cadono, si rialzano, imparando a proprie spese a vincere ed a perfezionarsi».

D’altronde, contro ogni standardizzazione e contro ogni conformismo, Einaudi aveva già detto in modo incontrovertibile la sua nel 1920 in Verso la città divina: «il bello, il perfetto, non è l’uniformità, non è l’unità, ma la varietà ed il contrasto» Il suo ideale era quello dell’“anarchia degli spiriti sotto l’imperio della legge”. E nelle Lezioni di politica sociale tenute nell’esilio svizzero poco prima della Liberazione, simboleggiò l’idea con l’immagine di un mercato rionale o di paese: ove tutti negoziano e contrattano, litigano sul prezzo per poi addivenire un accordo, ma sotto l’occhio discreto di un carabiniere che da lontano vigila che il tutto non degeneri.

 

LA BIOGRAFIA

Luigi Numa Lorenzo Einaudi (Carrù, 24 marzo 1874 – Roma, 30 ottobre 1961) è stato un economista, accademico, politico e giornalista italiano, secondo presidente della Repubblica Italiana (il primo ad essere eletto dal Parlamento italiano). Fu membro dell’Assemblea Costituente. Intellettuale ed economista di fama mondiale, è considerato uno dei padri della Repubblica Italiana. Ebbe tre figli, Giulio (che fondò la famosa casa editrice che porta il suo nome, la Giulio Einaudi Editore), Roberto e Mario, politico e docente universitario.

Il nipote Ludovico, figlio di Giulio, è un famoso pianista e compositore. Vicepresidente del Consiglio dei ministri, ministro delle finanze, del tesoro e del bilancio nel IV Governo De Gasperi, tra il 1945 e il 1948 fu Governatore della Banca d’Italia. Dal 1948 al 1955 fu presidente della Repubblica Italiana. Come capo dello Stato ha conferito l’incarico a quattro presidenti del Consiglio: Alcide De Gasperi (1948-1953), Giuseppe Pella (1953-1954), Amintore Fanfani (1954) e Mario Scelba (1954-1955); ha nominato otto senatori a vita, tra cui Arturo Toscanini (che rinunciò alla nomina), Trilussa e Luigi Sturzo.