Eletto al primo turno senza bisogno d’andare al ballottaggio. È il sogno accarezzato da Lula da Silva per il suo grande ritorno. Potrebbe anche farcela. L’ultimo sondaggio per le elezioni di domenica lo dà sopra al 48%. Il presidente in carica, l’ultrareazionario Jair Bolsonaro, è fermo al 31%. La legge brasiliana prevede che se un candidato supera al primo turno il 50% dei voti è eletto. C’è riuscito solo una volta il liberale Fernando Henrique Cardoso, ma era un’era politica fa.
Il clima è tesissimo. Destra estrema contro sinistra storica. Mai elezione presidenziale fu più polarizzata di questa. La polizia sta con Bolsonaro, molti agenti sono militanti, un 63% dice di votarlo, si contano 1800 candidati poliziotti nelle sue liste. Bolsonaro dice che non riconosce il Tribunale elettorale, che non si fida del voto elettronico, che accetterà come risultato legittimo solo una sua vittoria. Scimmiotta Trump. Il rischio di colpo di stato pare al momento più propaganda che altro. La campagna però è stata drammatica davvero. Violenta. L’ultimo lulista accoltellato è di sabato scorso in un bar dello stato di Cearà. (“Chi è qui elettore di Lula?” chiede un avventore. “Io”, risponde un tizio seduto al bancone. Coltellata al cuore). Stessa scena lunedì nel sud, a Santa Catarina.
Eppure, con giubbotto antiproiettile, eccolo qua Lula, l’eterno, l’inaffondabile. Stanco, ormai settantasettenne, sopravvissuto a sei processi penali e alla decapitazione per via giudiziaria del Partido dos Trabalhadores (Pt) da lui fondato nel 1980 e portato nel 2003 al governo per la prima volta della sinistra al potere nella storia del Brasile. Dopo un arresto show e una complicatissima vicenda giudiziaria fatta di duelli seguiti in tv come fossero la finale dei mondiali di calcio, ha tessuto con pazienza la trama della sua sesta campagna elettorale dopo la prima di 40 anni fa in cui fu sconfitto. Stavolta ha fatto la mossa ardita e geniale di offrire la candidatura per la vicepresidenza al suo avversario più capace, l’ex governatore di San Paolo Geraldo Alckmin, destra liberale brasiliana. Molti elettori non di sinistra, ma più antibolsonaristi che antilulisti, lo voteranno per questo.
Pare sia tornata al fianco di Lula buona parte della base sociale della sinistra brasiliana, la classe sociale creata dal primo decennio del primo governo di sinistra nella storia del Brasile che lo abbandonò dieci anni fa. Soprattutto lavoratori statali, poi massacrati dalla crisi. Gente illusa e poi delusa dal boom economico dei due governi Lula (2003-2010) quando il Brasile era quel miracolo di sviluppo e ridistribuzione di denaro ai poveri senza tassare i ricchi ritratto dall’”Economist” in copertina con la statua del Cristo Redentor, simbolo di Rio de Janeiro, che decollava come un missile terra-aria verso il cielo. Quel boom è svanito durante il governo di Dilma Rousseff, da lui designata nel 2010. La cintura industriale di San Paolo, la gigantesca fabbrica di operai in cui è nato politicamente Lula, è da anni in fase di deindustrializzazione. Una parte di quelli che si erano illusi d’essere diventati classe media si sono ritrovati indebitati fino al collo e sono stati per anni furiosi con Lula. Sono stati delusi dal miracolo lulista, non hanno voluto credere che l’epoca delle vacche grasse fosse finita, e si sono incattiviti nell’attesa vana di una svolta che non arriva.
Si sono gonfiati di debiti convinti dai micro crediti che il boom fosse eterno. Non hanno voluto comprensibilmente credere che quel miracolo fosse retto da una incredibile congiuntura fatta di prezzi altissimi nel mercato internazionale dell’agro- business combinata a una politica di ridistribuzione che non aveva più i soldi per tenersi in piedi, né una leadership politica in grado di procurarseli. E così si sono buttati nell’antipolitica e nell’estrema destra. Ora tornano da Lula, dal vecchio Lula che garantisce di riuscire ancora a far sognare in grande. Sperano che insieme a lui torni anche il tempo dei soldi facili, dei crediti accessibili, della ricchezza possibile (anche se a rate). E la corruzione del Pt? La saga delle accuse contro Lula? La principale: ha ricevuto o non ha ricevuto come tangente un appartamento in una località balneare a 60 chilometri da San Paolo dalla società di costruzioni Oas, in cambio di favori?
Lui ha sempre negato di aver mai comprato quell’appartamento, dice che sua moglie (nel frattempo morta) era interessata a farlo, ma che l’affare non si è mai concluso. Prove schiaccianti a suo carico non sono state trovate. Del romanzo d’appendice sulla casa al mare, seguito da quello sulla villa in campagna e da altri con minor successo di pubblico ma giudiziariamente insidiosi, i brasiliani forse si son stufati. Rimane, a suggello di questo abbondante decennio di colpi di scena giudiziari, la frase di Roberto Barroso, membro del Tribunale supremo: “Non esiste corruzione del Pt, del Psdb o del Pmdb in Brasile. Qui tutto dipende dallo Stato, dal suo appoggio, dal suo finanziamento. I sottoprodotti di questo sistema sono l’eccesso di burocrazia, lo scambio di favori e la corruzione pura e semplice. Viviamo in un modello di capitalismo al quale non piace né il rischio né la competizione. Questo non è capitalismo, questo è socialismo per ricchi”.
Di quel socialismo per ricchi i brasiliani, anche poveri, pare abbiano nostalgia. Si spiega così il fenomeno dell’araba fenice Lula da Silva, non soltanto con le sue doti di statista, di teatrante, di formidabile uomo da comizio. Per tentare di comprendere la sua capacità di resurrezione politica, bisogna seguirlo nei bagni di folla in provincia, nel Brasile profondo, osservare la quantità di persone che si accalcano lungo le strade soltanto per toccarlo, per vederlo da vicino. Piangono emozionati prima ancora che apra bocca. Gli gridano: “Lula te amo”. Dicono: “La povera gente prima che il Pt andasse al governo mangiava solo pollo, mai prima i poveri erano saliti su un aereo”.
Il delirio emotivo che suscita quest’uomo nelle zone più povere del Brasile sembra un fenomeno di religiosità popolare. Invece è l’eredità del suo capitale politico, conservata integra anni dopo la sua uscita dal Planalto. Una parte dei brasiliani lo detesta, certo. Ma intatta sembra anche l’aura di cui gode, l’aura di uno dei sette figli di una famiglia in miseria del Pernambuco, emigrato a sette anni nella periferia di San Paolo, venditore ambulante, lavapiatti. A 14 anni operaio in fabbrica, il dito di una mano lasciato dentro un tornio. A 19 l’iscrizione al sindacato, gli scioperi, l’arresto durante la dittatura, la nascita del Pt. Lula è sempre quello che, agli inizi della sua carriera politica, incalzato in un dibattito televisivo dalla domanda: “Ma alla fine chi è lei? È comunista, è socialista, cos’è?” seppe rispondere: “Sono un tornitore meccanico”.