L’ennesima prima volta nella lunga vita politica di Giorgio Napolitano è stata quella di mettere tutti insieme nell’aula del Parlamento per lui così centrale nella vita democratica e dare l’ultima lezione. Su cosa deve essere la politica. E sul valore delle istituzioni. Il tutto recuperando quella ritualità nelle forme – ogni dettaglio del complesso cerimoniale con 800 ospiti seduti tra cui vari capi di Stato – spesso snobbata e che invece diventa sostanza. Una bella giornata, seria e ricca di spunti, al di là delle legittime e personali emozioni che il Presidente emerito avrà senz’altro gradito. E pazienza se qualcuno oggi ne scriverà per criticare “l’autocelebrazione” a tratti anche “di maniera”.

Il cuore di una cerimonia laica sono le orazioni funebri. Il cerimoniale ha deciso fin da subito di non portare la bara in aula e di lasciarla esposta, coperta dal tricolore, per l’ultimissimo saluto, nella sala del governo. Qui infatti sono sfilati, il Presidente Mattarella, gli ex premier Monti, Draghi, Gentiloni, Renzi, il presidente francese Macron, l’ex Francoise Hollande, il tedesco Steinmeier, il governo e tutte le autorità italiane e straniere. La lista delle massime cariche è completa. La società civile invitata dalla famiglia, da Carlo Feltrinelli alla partigiana Iole Mancini, staffetta della Brigata Garibaldi, 103 anni. Bastano questi nomi per raccontare l’eredità di Giorgio Napolitano. Che le orazioni funebri hanno raccontato, ciascuna per la sua parte, ciascuna parte di un racconto totale del politico, dell’uomo, del padre (ha parlato il figlio Giulio), del nonno (bravissima la nipote Sofia).

Anna Finocchiaro ha raccontato il compagno di partito che credeva “nella conoscenza e nella competenza, nel pragmatismo e che rifuggiva all’ideologismo” riuscendo così nel percorso che lo ha portato “dal Pci al socialismo europeo”. Aveva due “ossessioni” Napolitano: il Parlamento come luogo della sintesi e superamento tra posizioni diverse per la cura dell’interesse collettivo”; le riforme “di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia e la società italiana”. Per tutto questo Napolitano “appartiene alla memoria dell’Italia”.

Gli oratori stanno seduti al banco riservato alla Presidenza, a destra e a sinistra del presidente del Senato Ignazio La Russa che ha saputo riconoscere il valore del politico (“È stato testimone di una cultura che si fa politica e di una politica che si fa istituzione”) e del presidente della Camera Lorenzo Fontana. Tutti pieni i posti al banco del governo che a volte è sembrato quasi ospite e spettatore. Soprattutto a loro ha parlato Gianni Letta, testimone dei “difficili” anni e delle tensioni in cui Berlusconi era premier e Napolitano presidente. L’ex sottosegretario, uomo forte di palazzo Chigi, ha smontato la tesi del complotto che tanti analisti, soprattutto di destra, hanno alimentato in questi giorni. “Due persone così diverse e lontane, tra loro c’è stata una convivenza difficile, con momenti di tensione e polemiche ma da tutte e due le parti non vennero mai meno la volontà e la forza di mantenere il rapporto nei binari della correttezza istituzionale e del rigoroso rispetto delle forme e dei limiti fissati dalla Costituzione”. Di fronte ad un lutto che Letta definisce “repubblicano” non ci possono essere divisioni. Morto tre mesi fa Berlusconi, morto oggi Napolitano, si chiude idealmente “un capitolo tormentato della nostra storia”.

Ogni intervento si conclude tra gli applausi. Il rito è laico. Si può. Si deve. Giorgia Meloni però non applaude Paolo Gentiloni che tratteggia il Napolitano europeista e atlantista convinto, scelte di campo “non retoriche ma frutto di un cambiamento di rotta all’interno del Pci”. Per lui, ha detto Gentiloni, “l’Europa è stata sempre la via maestra. E noi cercheremo di seguirla sempre con te”.

Giuliano Amato, come sempre, spiazza e riesce a parlare del momento più difficile per il presidente Napolitano: quando un pool di magistrati di Palermo si era convinto che la trattativa Stato-mafia si fosse allungata fino a lambire il Colle. Ospitò i pm “a casa sua” per una testimonianza che durò otto lunghe ore rispondendo ad ogni domanda. Il momento più basso per la magistratura italiana. Il momento più alto per l’istituzione Quirinale. Che sollevò il conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale per distruggere le telefonate con il suo collaboratore Loris D’Ambrosio, telefonate “casualmente acquisite a processo ma non immediatamente distrutte”. Dopo la rabbia, Amato sa anche commuovere quando ricorda il più bell’insegnamento del Presidente emerito che amava citare le parole del giovane antifascista condannato a morte: “Ci hanno fatto credere che la politica è sporcizia o è lavoro da specialisti e invece la politica siamo noi”.

Spiazza, a modo suo, il cardinal Ravasi che regala istantanee del rapporto privato tra un ministro di fede e un politico convintamente ateo. Gli scambi di libri (“quando ero prefetto della biblioteca Ambrosiana e lui ministro dell’Interno gli regalai dei “Delitti e delle pene” di Beccaria e lui cercò subito le pagine sulla pena di morte”), gli incontri con Papa Benedetto, le citazioni di Thomas Mann (“Il cristianesimo rimane una delle colonne portanti della civiltà occidentale e la civiltà mediterranea è l’altra”), l’amore per la Divina Commedia e per la musica. “In uno dei concerti offerti a papa Benedetto, dopo aver ascoltato l’Ave verum Corpus di Mozart, li definì 4 minuti di bellezza ultraterrena”. Un’ora e quaranta minuti filano via così, parole, memoria, ascolto, applausi. L’ultima lezione.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.